Arti Performative

Roberto Andò // Ditegli sempre di sì

Simone Sormani

L’uomo, il folle, l’attore. Tre elementi che si fondono perfettamente tra di loro nella regia di Roberto Andò di Ditegli sempre di sì di Eduardo De Filippo, spettacolo prodotto da Elledieffe – La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo e Fondazione Teatro della Toscana, passato dal Teatro Verdi di Salerno (dove è stato in cartellone per la Stagione del Teatro Pubblico Campano dal 10 al 13 febbraio) e in tournée almeno fino al prossimo aprile.

Scritto da Eduardo nel 1927, il testo mette insieme elementi della farsa napoletana di derivazione scarpettiana con quello che il regista ha definito un “vago pirandellismo”, suscitando riflessioni sul rapporto fra tragedia e commedia, tra follia e arte drammatica.

Partiamo dalla follia. Il protagonista, Michele Murri, è stato appena dimesso dopo un anno di internamento in manicomio e, apparentemente rinsavito, cerca di riprendere un’esistenza normale assistito dalla sorella Teresa, l’unica persona ad essere a conoscenza della sua malattia. In realtà Michele, tutt’altro che guarito, prende alla lettera tutto quello che gli viene detto. Per cui se Teresa gli confida che le piacerebbe sposare un uomo distinto e affascinante come il loro vicino di casa, subito corre a raccontare in giro di questo matrimonio come se fosse vero; se un amico di famiglia giura che farà pace col fratello solo da morto, ecco che si affretta a mandare un telegramma con la dolorosa notizia, in un crescendo di esilaranti equivoci.

«Trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni!», scriveva Pirandello nell’Enrico IV. Ma, mentre nel teatro del drammaturgo siciliano la pazzia era un escamotage per sfuggire a una realtà dolorosa, alla camicia di forza delle convenzioni sociali, qui abbiamo un pazzo vero scambiato per sano che vorrebbe a tutti i costi che gli altri “ragionassero”, evitando, nel parlare, sottigliezze e metafore che possano mandare in confusione la sua mente ancora indebolita dalla malattia. Ed è al pazzo, figura consustanziale a quella dell’attore che Eduardo affida il compito di svelare in qualche modo le ambiguità e le ipocrisie che si annidano nel  linguaggio e che, spesso, sottraggono verità ad una realtà che è già di per se disgregata e inafferrabile, in favore di una Forma che sia la più socialmente accettabile o la meno imbarazzante possibile. Così il disperato refrain di Michele «C’è la parola perché non la dobbiamo usare?», il suo richiamo a utilizzare in modo appropriato le parole senza perdersi tra le pagine del dizionario quotidiano dei doppi sensi e delle frasi fatte, sembra cadere nel vuoto. E la farsa diventa un dramma dell’incomunicabilità, in cui il Michele Murri di Gianfelice Imparato, sempre più smarrito nella sua allucinata coerenza, assume su di sé tutto il suo doppiofondo tragico e la sua forza eversiva.

Foto di Lia Pasqualino

Intorno al protagonista, la regia di Andò costruisce un mondo proprio come lo vede Michele: un grande manicomio (come sottolineato anche dal lavoro sulla scenografia di Gianni Carluccio, che trasfigura gli ambienti piccolo-borghesi del testo in luoghi grigi e dalle linee geometriche che richiamano lo squallore degli ospedali psichiatrici) popolato da gente disturbata e piena di ‘tic’, dove nessuno ragiona secondo una logica di corrispondenza tra “detto” e “vero”, per cui labile è il confine tra follia e cosiddetta normalità. Al fianco di Gianfelice Imparato, tra gli interpreti di questa umanità strampalata, Carolina Rosi – a cui va il merito di aver portato avanti con successo l’eredità artistica di Luca De Filippo dopo la sua scomparsa – è una Teresa che mantiene i tratti paranoici che le conferì Eduardo e l’atteggiamento amorevole verso il fratello, mentre il giovane Edoardo Sorgente nei panni di Luigino Strada, squattrinato studente con frustrate velleità artistiche, è istrionico quanto basta per far saltare completamente il precario equilibrio mentale di Michele e diventare bersaglio delle sua ossessive manie di razionalità. Gli altri – Massimo De Matteo, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Nicola Di Pinto, Paola Fulciniti, Viola Forestiero, Vincenzo D’Amato, Gianni Cannavacciuolo, Boris De Paola – aderiscono allo spirito della regia, che è quello di mantenere un sobrio e raffinato equilibrio tra commedia brillante e tragedia senza rinunciare a concedersi qualche stravagante divagazione rispetto all’originale eduardiano, come nel quadro finale con Michele e Teresa al centro e tutti gli altri personaggi travestiti da infermieri che dà corpo – sulle note de La forza del destino di Verdi – al significato metaforico della pièce.

Il pubblico si appassiona all’intreccio comico e grottesco e ne assapora il retrogusto amaro, quello che induce a riflettere sul rapporto tra le contraddizioni del vivere e la pirandelliana corda pazza che è in ognuno di noi, a cui forse dovremmo dire non sempre, ma un po’ più, di sì.

[Immagine di copertina: foto di Lia Pasqualino]



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