Arti Performative

Federico Tiezzi// “Medea”

Simone Sormani

Gli ultimi raggi di luce di una giornata estiva lambiscono le rovine del Teatro Grande del Parco Archeologico di Pompei, prima di fare posto al buio della sera. Questa notazione cromatica  è utile non solo a richiamare suggestioni di uno scenario unico al mondo, ma anche a sottolineare quel viaggio nell’inconscio che è la Medea di Euripide diretta da Federico Tiezzi e rappresentata l’1 e il 2 luglio al Pompeii Theatrum Mundi, rassegna di drammaturgia antica organizzata dal Teatro di Napoli con la direzione artistica di Roberto Andò e il contributo del Ministero della Cultura, della Regione Campania e di Comune e città Metropolitana di Napoli, giunta alla sesta edizione. La rassegna ha già visto in scena Clitennestra, tratta da La casa dei nomi di Colm Toíbín (16-17 giugno) e diretta da Andò, e Nozze di sangue (23-24 giugno) di Federico Garcìa Lorca, diretta da Lluìs Pasqual con Lina Sastri, e si concluderà con Ulisse, l’ultima Odissea, tratta da Omero, regia di Giulio Peparini (15-16 luglio).

Laura Marinoni, foto di Ivan Nocera per Teatro di Napoli

La scelta di Medea (produzione INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico), è coerente con un’edizione che quest’anno va decisamente nella direzione di raccontare l’universo femminile. E la storia dell’eroina tragica più celebre del mondo classico, divisa tra passioni violente e contrastanti, permette di esplorarlo pienamente e con uno sguardo moderno.

La messa in scena di Federico Tiezzi, che si avvale della pregevole traduzione dal greco di Massimo Fusillo, si dipana da una dimensione onirica. Nel prologo musicale, composto da Silvia Colasanti, rituali di preghiera e supplica lasciano presagire che anche stavolta il conflitto tra dionisiaco e apollineo, i due poli attorno cui ruota la tragedia greca, sarà purificato con il sangue. Medea sogna la Colchide, luogo arcaico e tribale – la cui raffigurazione rimanda a quella cinematografica che ne fece Pierpaolo Pasolini. La «terra del rimorso» – così l’ha definita Tiezzi citando gli studi di Ernesto De Martino – dove la maga viveva praticando quelle arti magiche grazie alle quali Giasone riuscì a conquistare il Vello d’oro, inducendola a tradire per amore la famiglia e la patria.

Foto di Ivan Nocera per Teatro di Napoli

Ma ora Medea è a Corinto, e Giasone minaccia di ripudiarla per sposare Glauce, figlia del re Creonte. Ora è solo una straniera, una “barbara”, priva di affetti e di un uomo che la protegga, guardata con sospetto dalla città da cui il re intende bandirla. Corinto è il luogo della razionalità, dove prevalgono le ragioni della politica e del potere e che si presenta, nelle scenografie di Marco Rossi, come ambiente  civilizzato, ricco di fredde architetture al neon e di linee geometriche ed essenziali. La Colchide è lontana, è memoria di un’armonia perduta, un orizzonte mitico – rituale di deflusso di profondi conflitti operanti nell’inconscio, le cui visioni totemiche, però, continuano a trasfigurare  il presente: i figli di Medea e Giasone indossano maschere di coniglietti, che prefigurano il sacrificio a cui saranno destinati, Creonte e i suoi sgherri hanno teste e movenze di coccodrilli, simbolo della ferocia del potere, e Medea stessa compare con un abito piumato e una testa di corvo. Elegante, potente e determinata pur nello smarrimento, ambigua e allucinata è la protagonista Laura Marinoni, la cui interpretazione riesce ad esprimere tutte le contraddizioni di un animo femminile ferito e sradicato, diviso tra la passione ancora viva per Giasone, l’amore per i figli e la volontà di rivendicare, con forza e crudeltà, il dolore che le viene inflitto. Accanto alla Marinoni, espressiva ed essenziale è l’interpretazione di tutti gli altri attori e attrici, Debora Zuin (la nutrice), Riccardo Livemore (il pedagogo), Roberto Latini (Creonte), Alessandro Averone (Giasone), Luigi Tabita (Egeo), Francesca Ciocchetti (prima corifea), Simonetta Cartia (prima coreuta), ed in particolare di Sandra Toffolatti, il nunzio, che nel raccontare  l’avvelenamento di Glauce  e di Creonte ad opera di Medea raccoglie applausi a scena aperta.

Una nota a parte merita il coro di donne corinzie, rappresentate come signore delle pulizie in tuta da lavoro e cuffia, a cui sono affidate riflessioni critiche sulla condizione della donna. Al momento dell’assassinio da parte di Medea dei suoi figli, che avviene fuori scena mentre una luce rossa (il disegno luci è di Gianni Pollini) invade il palcoscenico, coprono con il canto di inni sacri le urla strazianti dei fanciulli, che si propagano e si moltiplicano, ad evidenziare l’elemento sacrificale che toglierà al traditore Giasone onore, discendenza e affetti, per poi macchiare di rosso i pavimenti e le mura di Corinto con panni sporchi di sangue.

La messa in scena di Tiezzi non stravolge il testo tragico, ma semplicemente lo contamina con atmosfere da dramma moderno, borghese (come sottolineano anche i costumi di Giovanna Buzzi), e partendo dallo studio di carattere sulla straordinariamente ampia vita interiore della protagonista arriva a raccontarci conflitti che sono tuttora vivi tra la violenza reale, delle passioni e dei corpi, e quella «simbolica» ma non meno brutale dell’economia e della politica, in sintesi del neocapitalismo (rappresentato dalle figure ciniche di Giasone e Creonte), che oggi proprio sugli stranieri, sugli ultimi e le donne, mostra il suo volto più disumano.

Alla fine Medea trionfa, in tutta la sua potenza, salvata dal carro del dio Sole e vestita di abiti splendenti, condannando Giasone alla disperazione e alla rovina. Come scrive Tiezzi «la lettera vince sempre sul simbolo; l’evento prevale sulla struttura che lo giustifica; il corpo viene prima di ogni metafora». Dalla cavea del Teatro Grande applausi entusiastici per gli attori e una regia di altissima qualità, accompagnati da un senso di orrore per quel filo di sangue che dall’antichità arriva fino a noi.

[Immagine di copertina: foto di Ivan Nocera per Teatro di Napoli]



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