Arti Performative Focus

“Dramafest” in Calabria: la nuova drammaturgia, in un progetto teatrale di decentramento inclusivo

Giovanna Villella

La drammaturgia contemporanea protagonista della prima edizione del DramaFest che si è svolto a Cosenza dal 22 al 24 novembre con la direzione artistica di Max Mazzotta e quella organizzativa di Gianluigi Fabiano.

Un progetto realizzato da L’Altro Teatro e Libero Teatro in collaborazione con Disu – Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Cosenza e l’associazione Entropia Dam – Dipartimento Autogestito Multimediale dell’Unical.

Tre giorni di spettacoli e incontri con eventi e protagonisti di altissima qualità e il tema della “qualità” non è mai neutrale specie in luoghi spesso considerati periferici o marginali. Avere scelto l’Università della Calabria come sede degli incontri ha significato proporre un rilancio operativo del repertorio contemporaneo perché è quello il luogo in cui il teatro si “studia”, il luogo in cui il modello teorico diventa utile per l’interpretazione artistica, il luogo in cui nasce il nuovo pubblico e, anche, una nuova disponibilità verso il teatro contemporaneo.

In cartellone Vite di Ginius dello stesso padrone di casa Max Mazzotta, Il Cortile di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, Divine di Danio Manfredini e Celeste di Fabio Pisano per la compagnia Liberaimago.

Un progetto teatrale di decentramento “inclusivo” che ha privilegiato luoghi “altri” per le rappresentazioni creando un ponte ideale tra città e la sua Università: il Teatro Auditorium “Guarasci” di Cosenza e il Teatro Dam – Dipartimento Autogestito Multimediale Unical.

In Vite di Ginius scritto, diretto e interpretato da Max Mazzotta la scenografia è demandata a immagini psichedeliche animate da una autentica genialità visiva e proiettate su tre schermi che perimetrano lo spazio con giochi di luce e di prospettiva, mentre il formicolio della vita quotidiana – condensata in segni minimi (una brocca, delle scarpe, un ombrello) attorno ad un banco/consolle – costruisce una dimensione simbolica in un silenzio popolato di parole e perciò di cose, di respiro, di emozione, di dolore e di amore. Nel ricordo dei suoi “sé sepolti” Ginius/Mazzotta strappa la buona coscienza dello spettatore e lo coinvolge nel ghigno di un ripetitivo gioco di personaggi ed eventi. Il fascino dello spettacolo è proprio il suo procedere per quadri e per immagini che scavalcano il tempo, il dopo e il prima di uomini e donne che vivono e sono già morti, che muoiono e si rivoltano alla vita. Nel loro apparire sulla scena capiscono che il corpo è una vicenda umana e questo desiderio di percezione, di ricordare il già vissuto li conduce non solo a (ri)vivere ma a rappresentare la loro storia. Eppure lo spazio agito, visibile esteriormente, pur nel suo impianto visionario è meno importante dello spazio narrato, evocato, ricordato, atteso. È la parola, infatti, che si incarica di mediare la distanza tra questi due piani, quello fisico e quello mentale-onirico. In una poetica della vertigine, la scrittura, prestandosi ad una serie di combinazioni in cui si realizza una pluralità di stili e di registri, diventa il luogo in cui riaffiorano le ombre, l’oscillazione profonda dell’essere, i cedimenti di un pensiero che non esita ad affacciarsi sull’abisso.

Divine di e con Danio Manfredini, liberamente ispirato al romanzo di Jean Genet Nostra signora dei fiori, e nato per farne un film, diventa nel 2003 parte dello spettacolo teatrale Cinema cielo. In questa versione Manfredini legge il canovaccio della sceneggiatura accompagnato dai disegni realizzati da lui stesso. Lo spettacolo diventa così una sorta di racconto visivo, lo storyboard che traccia la parabola della vita di Divine. Il passato da bambino di Divine, con il nome di Louis Culafroy, insieme con sua madre Ernestine e con Alberto, con il quale scopre l’amore omosessuale è il fil rouge dell’intera narrazione. Lungi dall’essere una cronaca scandalistica ricca di dettagli sordidi, l’autore sovverte i valori, rovescia ogni forma di moralità come fanno le sue creature immaginarie, e i dettagli che offre sono quelli della quotidianità di Divine: la sua parrucca, il suo letto, il fumo delle sue sigarette, le sue ciglia. Il punto di vista è impostato sulla sua vita e le sue azioni, così come sulle vite e le azioni di coloro che la circondano. Il ribaltamento della prospettiva è totale, e i crimini vengono menzionati solo di sfuggita, minimizzati, mentre lo spettatore viene invitato nell’intimità di queste vite notturne e illegali, fuori sincrono, rivelando ciò che è solo intuito o immaginato. A unire tutti in un unico movimento è il desiderio carnale e sessuale che li anima, li fa vivere e regola ogni loro gesto. Un desiderio che viene elevato a legge, tirannico, fonte di piacere quanto di sofferenza. La scrittura/narrazione mostra una prosa con frasi semplici, a volte crude, che mescolano il registro basso al lirismo, trasfigurando la realtà e “smascherando” una poesia fragile, insospettata affidata alla voce di Danio Manfredini, una voce che culla, scivola sull’acqua mentre egli, “aedo” immobile, davanti al leggio, appena bagnato da un cono di luce, si immedesima in tutti i personaggi regalandoci il “canto d’amore” di ciascuno.

“Il Cortile” di Scimone/Sframeli

Il Cortile di e con Spiro Scimone, affiancato in scena da Francesco Sframeli e Gianluca Cesale, diretti da Valerio Binasco, vede il “cortile” come hortus conclusus, un tempo luogo protetto e spazio privilegiato della vita di comunità e del gioco infantile, qui assume una atmosfera sinistra, quasi una visione apocalittica post-moderna in cui i protagonisti Peppe, Tano e Uno vivono come sopravvissuti di una specie, o rifiuti della società sommersi dai rifiuti. E vi si ritrova una sorta di “memoria del sottosuolo” in quell’avanzo di famiglia formata da Uno e da sua moglie ma anche evocata nel ricordo dell’ultimo piatto caldo, pasta al sugo, che Tano e Peppe hanno consumato. C’è poi un topo – il quarto personaggio invisibile ma percepito come assolutamente reale da Peppe che ne avverte i movimenti, gli squittii ma soprattutto i morsi al suo piede sanguinante. Alla dissolvenza dell’umano segue la dissolvenza del pensiero, del linguaggio, delle cose che rivela una rarefazione concreta e sublime insieme. Ci troviamo di fronte a un contenuto essenziale, antiretorico, concentrato in esperienze di sofferenza e di vita. La lingua, però, si è sgretolata perché una serie di valori connessi anche al linguaggio si sono frantumati. La compostezza formale del discorso viene disarticolata e si procede per locuzioni brevi, sincopate, secche. L’atto tragico si invera nell’impotenza, nell’inazione, e la tragedia vira nella farsa, nella ripetitività quasi macchiettistica di personaggi semplici che conservano tratti di purezza e di crudeltà tutta infantile. Sono comunque personaggi assoluti e non rassegnati. Uno non vuole rassegnarsi al silenzio, Peppe e Tano sono ancora alla ricerca del loro giorno di festa. C’è dunque un tentativo di resurrezione annunciato da una campana, ma “la sera del mondo” – con il suo volume di buio – è acquattata in un sacco che pareva ormai vuoto. Da quel mondo chiuso non si esce.

Il Cortile è la scrittura teatrale del mondo contemporaneo. Certo l’angoscia, l’insicurezza, la rabbia, la ricerca disperata di affetto, cura, attenzione, pace appartengono a tutti i Tano, i Peppe e gli Uno del mondo. Eppure, nella loro fanciullesca crudeltà, sono creature disturbate e disturbanti, portatori di disordine che hanno il compito di scuotere la coscienza narcotizzata dello spettatore ormai assuefatta a una visione rasserenante.

Protagonista di Celeste, testo e regia di Fabio Pisano, con Francesca Borriero, Roberto Ingenito, Claudio Boschi, è Celeste di Porto, detta “la Pantera nera”, un’ebrea del ghetto romano. Non si sa molto di lei, ma dalle cronache del tempo emerge una storia spietata. Una bellissima ragazza di 18 anni che dopo il rastrellamento del ghetto da parte delle SS decide di diventare delatrice. Per gli Ebrei del ghetto sarà un vero e proprio periodo buio: chi viene salutato con un cenno della mano da Celeste, non ha scampo. Per ogni “capo”, lei guadagna cinquemila lire. E non importa se a finire nelle mani delle camicie nere siano donne, bambini o uomini. Solo la sua famiglia deve essere risparmiata. Il padre, però, non riesce a portare questo enorme peso sulla coscienza e si consegna alle SS e i fratelli la rinnegano. Solo la madre continua a volerle bene. Una volta caduto il regime, si trasferisce a Napoli, sceglie un nuovo nome, Stella Martinelli, e diventa prostituta in un bordello. Un giorno tre ebrei la riconoscono e la denunciano. Viene portata in carcere, a Roma. Riesce a evadere ma viene catturata, processata e condannata. Esce nel 1950, tra condoni e amnistie. In quegli anni di detenzione si dice abbia avuto una crisi mistica.

Fabio Pisano porta in scena le azioni commesse da Celeste contro la sua gente, sforzandosi di immaginarne o inventarne il perché. Senza alcuna pretesa di assolverla, ma con l’urgenza di narrare.

Protagonisti al Dramafest anche i libri. Questa prima edizione ha ospitato la giornalista e critica teatrale Mariateresa Surianello curatrice del libro Renato Nicolini. Uno strappo nella rete. Il volume raccoglie le recensioni e gli articoli firmati da Renato Nicolini per Tuttoteatro.com, tra le prime riviste italiane online di informazione e critica teatrale. Con i suoi contributi settimanali, ospitati nella rubrica Uno strappo nella rete, che dà il titolo a questa raccolta, l’inventore dell’“Estate romana” restituisce un viaggio appassionato e appassionante nel teatro e nello spettacolo dei primissimi anni del nuovo millennio, nel quale si distinguono le direttrici del suo pensiero e dal quale emergono tutte le sue intuizioni e preoccupazioni, utili a leggere e interpretare il nostro presente.

Nella realizzazione del progetto Dramafest, il coraggio e la tenacia di Max Mazzotta, coadiuvato da una squadra di collaboratori entusiasti e instancabili, sono stati premiati. L’allargamento degli spazi, delle possibilità creative, delle occasioni di incontro inventivo e non ripetitivo come quelle tra studenti, studiosi, critici, attori, autori e registi hanno dimostrato che il teatro contemporaneo d’autore è una necessità fortemente avvertita qui al Sud dove le occasioni di confronto e di partecipazione sono minori o nulle. Occorre ribadire l’importanza e il merito di questa I edizione del DramaFest che ha segnato un momento di svolta per la Calabria. Da qui l’urgenza di proseguire l’esperienza perché i palcoscenici calabresi meritano le stesse opportunità di “visione” rispetto a regioni storicamente integrate nel circuito nazionale della nuova drammaturgia.

L’evento è stato cofinanziato con risorse PSC Piano di Sviluppo e Coesione 6.02.02 erogate ad esito dell’Avviso “Eventi di Promozione Culturale 2022” dalla Regione Calabria – Dipartimento Istruzione Formazione e Pari Opportunità. – Settore Cultura.

 

[Immagine di copertina: “Celeste” di Fabio Pisano]

 



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