Arti Performative Focus

Ruccello e le sue sfumature sonore nel “Ferdinando” di Arturo Cirillo

Simone Sormani

Racconta Luciana Libero nel suo Dopo Eduardo. Trent’anni di Nuova Drammaturgia a Napoli (Apeiron Edizioni, 2018), che la prima di Ferdinando di Annibale Ruccello del 1986, con una memorabile Isa Danieli accanto all’autore e attore stabiese – tragicamente e prematuramente scomparso di lì a poco –, suscitò nel pubblico «sorpresa, ammirazione, sconcerto» per un’opera che «riapriva antiche ferite mai rimarginate, un rimosso non pacificato, un’irrisolta Unità italiana, la mai raggiunta ricomposizione tra Sud e Nord del Paese, le dispute tra napoletano e toscano; il tutto con una storia dai risvolti torbidi e noir dove un angelo sterminatore semina insidie, delitto e corruzione tra due donne e un prete». A distanza di quasi quarant’anni sembra restare immutata la forza di untesto ricco di significati metaforici e di solidi riferimenti storici e letterari; di un linguaggio polifonico, impastato, viscerale; di solitudini e passioni morbose, che torna in scena, interpretato e diretto da Arturo Cirillo, fino al 17 dicembre al Teatro Bellini di Napoli (coproduttore con Marche Teatro e Metastasio di Prato) dopo un’importante tournèe nazionale (prossime date: 9 gennaio Teatro Feronia di San Severino Marche, 11-14 gennaio Teatro Duse di Genova, 16-17 gennaio Teatro Fusco di Taranto).

Foto di Tommaso Le Pera

Al levarsi del sipario si scorge subito, nello spazio scenico delineato da Dario Gessati, il tipico ʽghettoʼ ruccelliano, chiuso e asfittico nelle dimensioni sia spaziali che esistenziali, composto da un grande arazzo centrale, un lampadario gettato a terra, un letto dalla testata possente e scolpita, simboli di una regalità perduta e di mai sopiti desideri carnali. È la sala di un castelletto della campagna vesuviana dove tre personaggi conducono un esilio abitudinario, snervante, amorfo, legati da interessi e avidità, mentre intorno pare di sentire ancora l’eco delle armate sabaude che nel 1860 conquistarono il Meridione. Qui, circa dieci anni dopo quegli eventi, si è auto-reclusa Donna Clotilde Lucanigro (Sabrina Scuccimarra), baronessa decaduta e incapace di accettare le novità portate dal nuovo regime, che segna il tramonto della tradizione borbonica e cattolica, dei privilegi feudali, e calpesta la stessa identità linguistica napoletana con l’imposizione dell’italiano – «‘Na lengua ‘e mmerda!… ‘Na lengua senza Ddio!». Vive perennemente adagiata su quel letto che sa di morte Donna Clotilde, con il quale è diventata quasi un tutt’uno, in uno stato di prostrazione, allegoria di un Regno che non è più tale e di un popolo conquistato che non riconosce la nuova patria. L’accudisce Gesualdina (Anna Rita Vitolo), una parente povera accolta in casa, apparente zitella senza peccato e oscura carceriera, che diventerà man mano il vero deus ex machina della pièce.

Le due attrici costruiscono con estrema abilità il rapporto tra le due donne, fatto di rancori, gelosie, reciproco bisogno, ma anche di confidenze, complicità e inaspettate alleanze. Insieme scavano, tra ironia e feroci battute, negli umori neri, malsani, e nelle pulsioni sessuali delle protagoniste, in un continuo e vorticoso cambio di corde e tonalità – da quelle più intime a quelle comiche e grottesche – che sorprende e diverte. Questo ʽtrittico della disperazioneʼ si completa con Don Catellino, ruolo che fu di Ruccello e qui impersonato dallo stesso Cirillo, sacerdote bisessuale che sfoga le sue voglie di trasgressione con Gesualdina. Anch’egli è espressione di un ceto decaduto, il clero, una volta saldamente legato alla nobiltà. «È prevete ca è ‘a peggia razza ‘e femmene ca ce sta ‘ncoppe ‘a faccia d’ ‘a terra», lo schernisce Donna Clotilde, e basterebbe tale battuta sfacciata per definirne la natura ambigua, ma Cirillo riesce sottilmente a coglierne barlumi di sincerità e purezza quando viene travolto, come le altre, dalla passione per Ferdinando.

Il giovane nipote della Baronessa, il cui nome è un inganno, come il suo parlare artificioso e suadente, è nell’interpretazione di Riccardo Ciccarelli meno efebico di come lo immaginò l’autore e più virile, con passaggi netti e ben calibrati da una finta innocenza ad una natura realmente demoniaca. Arriva all’improvviso nella loro esistenza stagnante riaccendendo in essi un desiderio di amore e di vita, di ritorno alla vita, che si rivelerà nefasto. In quel mondo claustrofobico dove sacro e profano si confondono e, gettate le maschere, il peccato è un bisogno ammesso e cercato, il suo corpo è un’epifania divina che scatena bramosie di possesso. Il lampadario del palazzo dei Lucanigro ritorna per un po’ a splendere di vivide fiamme. Ed è in questa luce che acceca in un crepuscolo di valori, sottolineata pure nei contrasti cromatici creati dal costumista Gianluca Falaschi, che si racchiude il dramma umano, anche nella sua simbologia antropologica e mitologica, raccontato da Ruccello nella cornice del dramma storico. Ne nasce una partita a quattro – dove c’entrano anche favoleggiate eredità e misteriose cassette di preziosi nascoste – in cui uno cadrà, ma tutti resteranno sconfitti, ad eccezione di chi saprà giocare con spregiudicatezza e cinismo le proprie carte (e in questo caso il proprio corpo). La iena borghese berrà il sangue dei gattopardi.

«Ferdinando è un tenore e clarinetto, Donna Clotilde è un soprano e un flauto, Donna Gesualda un contralto e una viola e don Catello un basso e un violoncello», scriveva Annibale Ruccello nelle note di regia dell’86. Sfumature sonore – di ascendenza desimoniana – che non mancano nella messa in scena di Arturo Cirillo. Notevole il lavoro degli attori sull’espressività di movenze e intonazioni e sulla potenza magmatica e tellurica di una lingua napoletana antica, di cui questo testo è un tragico e commovente epitaffio. Sfrontata, eccentrica, malefica la Scuccimarra nei panni di Clotilde, mentre la Vitolo assurge a grande protagonista nella seconda parte, raccontando in coppia con Don Catellino inconfessabili sacrilegi compiuti – un pezzo di teatro difficile da dimenticare – e dando a Gesualdina un’intensità emotiva, umana e animalesca insieme, mai vista prima. Il risultato è di assoluta bellezza, un tableau vivant di tenebrismo caravaggesco e di vivaci contorsioni, un contrappunto di voci e «di linguaggi, di parole, pensate come una partitura musicale» in cui – riprendendo le note dell’autore – «ogni tema ha la sua voce ed il suo strumento, che sono la voce e lo strumento stesso del personaggio che evocano». La direzione di Arturo Cirillo, con equilibrio tra tradizione e innovazione, rifugge così da ogni naturalismo e mette a nudo – non solo metaforicamente – la pelle e la carne dei personaggi, in un gioco che esalta la forza della rappresentazione. Vincitore del Premio ANCT e candidato all’Ubu per Cyrano de Bergerac, Arturo Cirillo fa rivivere Ferdinando in forma di spettacolo al contempo raffinato e popolare, contemporaneo e universale. Al Bellini, Napoli ha ritrovato il suo Ruccello.

[Immagine di copertina: foto di Tommaso Le Pera]

 

 

 



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