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“I Balli di Sfessania. Storia, migrazioni e presenza teatrale di una danza moresca napoletana”. Intervista all’autrice Valentina Confuorto

Simone Sormani

Indossano le maschere di cuoio tipiche della Commedia dell’Arte, portano spade, bastoni, strumenti musicali e piumaggi e si contorcono in lazzi e movimenti strani, ora patetici, ora ridicoli e osceni. Sono le 49 figurine realizzate tra il 1620 e il 1622 da Jacques Callot, fine incisore francese, note come “I Balli di Sfessania”. È questo l’argomento su cui indaga l’autrice di I Balli di Sfessania. Storia, migrazioni e presenza teatrale di una danza moresca napoletana (Bulzoni Editore 2023), Valentina Confuorto, musicista, musicologa e drammaturga, docente di storia della musica presso il Conservatorio Rossini di Pesaro.

L’uscita del suo libro è l’occasione per ritornare sulla valenza di immagini il cui substrato, per lungo tempo dimenticato – ma di cui sono presenti tracce ancora ben evidenti – è denso di significati e simbologie ancestrali.

Prof.ssa Confuorto, per secoli si è ritenuto che “I Balli di Sfessania” di Callot altro non fossero che una rappresentazione – anche un po’ fantasiosa – di maschere della Commedia dell’Arte. Solo a partire da Benedetto Croce si è affermata progressivamente un’altra interpretazione, per cui queste raffigurazioni descriverebbero le ʽsfessanieʼ e le ʽluciateʼ, ossia – come lei scrive – «dei momenti di farse carnevalesche in voga a Firenze nei primi decenni del Seicento, caratterizzate da musiche, canti, balli, situazioni e movenze della tradizione moresco-napoletana». Perché tale errore interpretativo si è protratto per così lungo tempo e su quali elementi si sono focalizzate le sue ricerche?

Innanzitutto direi di partire proprio dalla figura di Callot, che di mestiere faceva l’incisore, ma non solo. Si era formato in Francia e poi, appena sedicenne, era emigrato in Italia, lavorando inizialmente a Roma e dopo, per nove anni, a Firenze. Lì aveva vissuto a stretto contatto con la corte, occupandosi non solo di disegni di piccole dimensioni, ma anche di grandi scenografie per feste e spettacoli. Era quindi completamente addentro alle tradizioni festive della città, che soprattutto durante il Carnevale ribolliva di commedie, giostre e musiche. Quando rientra in Lorena deve trovare un modo per sbarcare il lunario. Cosa può piacere ai francesi? Cosa è tipicamente italiano, ma conosciuto anche lì? Le maschere della commedia all’improvviso. Callot le conosce molto bene, infatti aveva inciso tra gli altri un Pantalone con tutte le caratteristiche tipiche, dalla postura agli accessori. Per chi non è esperto, però, una maschera in cuoio e un palcoscenico bastano già a connotare un interprete come commediante italiano. L’aggiunta in didascalia di nomi ben noti, come Razullo, Pulliciniello, Scapino o Fracasso completa l’inganno. Un’ambiguità di fondo quindi esiste ed è voluta dall’artista, che di suo si diverte a mescolare le carte anche in altri contesti: se si vedono le sue incisioni dei Santi, che normalmente hanno una lunga tradizione iconografica, si nota come le didascalie non abbiano nulla a che vedere con i soggetti rappresentati. Il primo motivo, quindi, è la natura stessa delle rappresentazioni. Il secondo è che l’oggetto rappresentato, ovvero il ballo, a inizio Seicento già sta passando di moda. Prendiamo la commedia Lo schiavetto di Giovan Battista Andreini: nella prima edizione del 1612 Succiola balla una ‘sfessaina’, ma già nel 1620, anno della seconda edizione, è diventata un ‘mattaccino’, cioè una danza che parodia la moresca. Il terzo motivo, infine, è che fior di studiosi non solo hanno dato per scontato che i soggetti fossero attori realmente esistiti, ma hanno portato avanti ricerche storiche per recuperare le vicende di improbabili Meo Squaquara, Francatrippa e Capitan Zerbino.

Il primo ostacolo da superare, dunque, è stato tentare di ricostruire l’effettiva esistenza di questi balli, e a questo scopo i manoscritti musicali sono stati fondamentali; ho dovuto poi ricontestualizzare il significato dell’indossare una maschera, soprattutto se in periodo carnevalesco. È stato poi necessario estrapolare degli indizi dalle stesse incisioni, dando senso alla presenza di elementi che sono del tutto estranei alle esibizioni teatrali, come i sonagli, le piume, la semi-nudità e le posizioni contorte. Infine, la scrematura delle didascalie: tolte quelle più facilmente riconducibili alle maschere, restavano quelle più misteriose, a cominciare dal frontespizio: ʽLucia Miaʼ, ʽBernovallàʼ e ʽCucurucùʼ, che di certo non sono nomi da commedia ma piuttosto, come spiego nel saggio, locuzioni risalenti alle danze moresche.  

Anche il termine ʽsfessaniaʼ non è una fantasia o un “capriccio” di Callot. Che cosa vuol dire?

La ʽsfessaniaʼ – o ʽfessaniaʼ, o anche ʽsfessainaʼ – è il nome di una danza. Di questo ne siamo certi, perché si trova citato in poesie e testi per musica, ma anche e soprattutto in intavolature per liuto, accanto a molte altre danze. Più misteriosa invece è l’etimologia della parola, che probabilmente ha a che fare con la lingua napoletana e con il carattere osceno-parodico della danza: uno ʽsfessatoʼ è uno che si è stancato da morire, forse anche perché ha troppo indugiato in attività erotiche, sfiancandosi per troppo amore della femminil fessura, la ʽfessaʼ.

Abbiamo testimonianze di come venivano eseguite queste danze? Come sono state assimilate nella tradizione teatrale europea?

Tentativi di descrizione ce ne sono diversi, anche abbastanza antichi. Gioan Battista Del Tufo nel 1588 ne delinea le movenze in maniera allo stesso tempo analitica e imprecisa. I ballerini batterebbero a tempo mani e piedi, ancheggiando in modo vistoso, abbassando poi il petto verso il ventre, tutto questo girando vorticosamente. Da una descrizione francese della ʽfissagneʼ si capisce che la danza imitava l’accoppiamento tra uomo e donna. Succiola ne Lo schiavetto canta e danza contemporaneamente, e sa di arrecare piacere a chi la osserva; alla fine dell’esibizione è terribilmente sudata, il che conferma la concitazione dei passi. In altri casi sono tramandate smorfie e torsioni, con grande divertimento di chi guarda.

Per quanto riguarda i testi che le accompagnavano, quali sono le particolarità linguistiche che li caratterizzano e i temi in essi trattati?

I protagonisti dei testi delle ʽluciateʼ, spesso confuse con le ʽsfessanieʼ, sono schiavi che stanno festeggiando l’avvenuta affrancatura, la liberazione da parte del padrone. Bevono vino, danzano in maniera sfrenata e ogni tanto intonano un ritornello corale, ʽbernaguallàʼ, che poi è proprio una delle parole misteriose sul frontespizio di Callot. Le storie narrate sono spesso simili tra loro: Lucia, schiava mora, è contesa da più uomini, solitamente Giorgio e Martino, ma a volte anche dal padrone. Tutti vogliono giacere con lei e forse prima o poi ci riescono, finché non resta incinta… Sfide, ripicche, accuse, finché tutto si scioglie nei festeggiamenti della liberazione. Gli esecutori però non erano mori, ma italiani – forse dipinti in volto o forse no – che imitavano i mori, la loro parlata e le loro movenze. Troviamo perciò verbi lasciati all’infinito, terminazioni in -a anche per nomi maschili, storpiature lessicali e onomatopee. Uno dei tanti modi di divertirsi, ben lontano dal nostro politically correct.

Roberto De Simone – nell’intervista che Le ha rilasciato e che è riportata in appendice al volume – ritiene che la ʽsfessaniaʼ e la ʽluciataʼ fossero in origine  danze estatiche legate a fenomeni di possessione. Lei è d’accordo con De Simone su questo punto?

Qualche indizio qua e là che la ʽsfessaniaʼ avesse affinità con le danze dei tarantolati effettivamente c’è. Del Tufo sostiene che guarisce “febre e mingrania”, attribuendole quindi virtù terapeutiche, tipiche delle danze di possessione. Tuttavia questa caratteristica si perde nel momento in cui si preferisce l’aspetto spettacolare, che è poi quello che ha colto, reinventandolo, Callot.

Si è mai chiesta che cosa in particolare abbia colpito Callot di queste danze tanto da volerle raffigurare nelle sue incisioni?

Domanda difficile… Bisognerebbe avere la macchina del tempo e partecipare alle notti folli di un carnevale fiorentino per cogliere la fascinazione di danze così eccessive, vorticose, a tratti oscene. Noi oggi filmeremmo tutto col telefonino, lui probabilmente avrà fatto degli schizzi già mentre era a Firenze, per poi sistematizzare il tutto, e renderlo vendibile, una volta tornato in Francia.

Più in generale le moresche nascono in un contesto storico e sociale molto particolare, che vede la presenza a Napoli e in tutto il Mediterraneo cristiano di mori. Non a caso il sottotitolo del suo libro è “Storia, migrazioni e presenza teatrale di una danza moresca napoletana”. C’è stata, dunque, una commistione tra le due culture anche in campo coreutico?

Noi siamo abituati a immaginare le corti secentesche piene di dame pallide e formose, ma il panorama era molto più eterogeneo. Nel ‘600 a Napoli si contavano tra 12.000 e 20.000 mori, che è un numero enorme. Non solo i nobili, ma anche i borghesi potevano permettersi uno schiavo o una schiava, e non era raro assistere a battesimi di mori, o addirittura a matrimoni misti tra cristiani e convertiti. Attenzione che per “mori” si intendeva una vastità di popolazioni e di origini, che spaziavano dal Maghreb, all’Africa Subsahariana, al Vicino Oriente, il che vuol dire una moltitudine di lingue, abitudini, strumenti musicali, canti e danze. Quindi sì, di certo ci sono stati contatti e contaminazioni, e non ci si sorprende nel trovare nelle descrizioni di viaggiatori danze molto simili a quella che doveva essere la ʽsfessaniaʼ.

Le moresche hanno una valenza culturale e antropologica particolare? Quanto hanno influito sulla produzione musicale colta e sugli ambienti delle corti europee di epoca rinascimentale e barocca?

La parola “moresca” vuol dire tante cose e designa nel tempo manifestazioni artistiche diversissime tra loro. Per esempio, il fatto che i ballerini si tingessero di nero il volto in origine non dipendeva dalla rievocazione delle battaglie dei cristiani contro i mori, ma da antichi riti di fertilità che evocavano, esorcizzandoli, i demoni. Il tema della lotta, quindi, per schiere contrapposte o in circolo, con spade o bastoni, ha sicuramente una forte valenza antropologica. Quando i mori hanno smesso di rappresentare un nemico archetipico, ecco che invece hanno cominciato ad essere ridicolizzati e parodiati. Non sono riuscita ancora a trovarne degli esempi convincenti, ma tutto fa supporre che nel ‘500 esistessero spettacoli popolari, di probabile importazione spagnola, basati su storie buffe di schiavi mori. Da queste deve aver preso spunto Orlando Di Lasso per le sue moresche vocali; a queste storie si è ispirato Giambattista Basile per la cornice de Lo cunto de li cunti; questi ritmi sono riprodotti da Felipe Sgruttendio in A Cecca. La catubba. A teatro, infine, sia opere musicali come l’Orfeo di Monteverdi, sia commedie di prosa, si concludevano con una moresca, che però ormai aveva perso tutti i caratteri bellicosi, ingentilendosi in un divertimento cortese.

In epoca contemporanea ci sono stati tentativi di mettere in scena queste danze o comunque di attingere a questo vasto patrimonio culturale?

Come no! Uno dei primi è stato proprio Mejerchol’d, che a inizio ‘900 ha basato i principi della biomeccanica teatrale sintetizzando le posture grottesche delle figurine callottiane con quelle di teatro Kabuki, circo e balletto classico. Diversi registi, poi, hanno preso spunto dalle posture di Zanni e Capitani per reinventare i movimenti delle maschere di commedia nel revival del secolo scorso. Uno degli esperimenti di maggior successo è La commedia degli Zanni (1958) con la regia di Giovanni Poli, che ha incantato migliaia di spettatori dagli Stati Uniti al Giappone. E poi, per la plasticità, la padronanza muscolare e la bellezza intrinseca, hanno ispirato anche pedagoghi teatrali come Luca Gatta e Michele Monetta. Il capolavoro indiscusso resta però La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone, che nasce dalla sintesi di più livelli e tradizioni: nella storia, che si ispira a quella di Lucia nel Cunto; nei testi, che mescolano Orlando Di Lasso, Basile, Sgruttendio e tradizioni popolari; nei costumi, e in particolare nella scena della moresca, con i ʽCuccurucùʼ dai cappelli piumati; e infine nello spirito, con la coesistenza di alto e basso, colto e popolare, storia e invenzione. Ecco, se un regista oggi volesse provare a rimettere in scena “I Balli di Sfessania”, gli suggerirei di abbandonare la tradizione e di osare, scegliendo innanzitutto un cast multietnico, e poi studiando una gestualità lontana anni luce da un’idea aerea e aggraziata, ma concreta, potente, che esprima la gioia lasciva e senza freni di uomini e donne che, dopo troppo tempo, riacquistano la libertà perduta e celebrano l’avvenimento risanando i conflitti preesistenti, con unioni fino a poco prima impensabili.



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