Arti Performative

Francesco Petti/Francesco Maria Siani // L’eredità

Simone Sormani

Si è aperta il 30 settembre con la prima assoluta di L’Eredità di Francesco Maria Siani (produzione Teatricomio) la Stagione del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, realtà ormai consolidata nell’offrire al pubblico un cartellone di spettacoli off di apprezzata qualità. In scena Anna e Roberto Nisivoccia e Andrea Palladino, per la regia di Francesco Petti.

Il testo indaga, fin dal titolo, sulla famiglia come luogo di trasmissione di un patrimonio ideale, fatto di affetti, ricordi, valori comuni. Ma cosa succede quando, appunto, all’interno di essa non vi è tale condivisione a causa di diverse sensibilità umane ed esistenziali, di differenti vedute politiche, di rancori covati sotto la cenere per anni? Quando le fratture sono così insanabili – e tenute insieme solo dalla necessità di salvare le apparenze – da far addirittura sorgere dubbi sull’appartenenza ad uno stesso nucleo familiare e, in definitiva, porre interrogativi sul chi siamo veramente?

Francesco Maria Siani ci mette davanti ad un contesto di questo secondo tipo, un triangolo composto da un padre, Saverio, una madre, Marta, e un figlio, Enzo. Saverio, operaio pugliese emigrato al Nord, è un uomo infelice, esacerbato, malato nel corpo e nell’anima. Vive paralizzato, a seguito di un incidente, nell’appartamentino frutto dei sacrifici di una vita. Prigioniero nella sua poltrona e coperto da un plaid per quasi tutto il tempo della pièce – la sua figura ricorda per certi aspetti la celebre Donna Clotilde del Ferdinando di Annibale Ruccello – lancia invettive sprezzanti verso «la democrazia, i politici, i comunisti, gli intellettuali, i giornalisti, i ricchioni, i drogati», tutto ciò che ritiene responsabile dei propri fallimenti e della distruzione di quella società patriarcale e ʽordinataʼ che non ha mai smesso di rimpiangere. Ma soprattutto si scaglia contro quella famiglia che sente distante da sé, quasi non appartenergli. Marta infatti, anche essa di umili origini, è una sognatrice, amante dei libri, e si è creata nel tempo una seconda vita, pur continuando ad accudire con dolcezza Saverio nella malattia e a sostenere con grandi sacrifici gli studi di Enzo. Quest’ultimo, comunista e con un passato da tossicodipendente, si è dedicato al giornalismo, vivendo un sempre più progressivo e netto distacco dalla casa, dalla quale manca ormai da quindici anni, e da quel padre da cui fin da bambino si è sentito rifiutato, maturando nel tempo la consapevolezza di non essere il figlio che questi avrebbe voluto. 

In un giorno come tanti Marta, che ha cercato faticosamente di fare da cerniera tra i due mondi profondamente distanti di Enzo e Saverio, malata di tumore decide di togliersi la vita, consapevole che nel suo stato non avrebbe potuto più accudire il marito e che, allo stesso tempo, nessuno avrebbe potuto prendersi cura di lei.

La morte della madre è l’occasione per Enzo per tornare a casa ed affrontare e risolvere una volta per tutte il rapporto con il ʽmostroʼ che si porta dentro: l’incapacità di sentirsi figlio amato e desiderato, e dunque di essere egli stesso ʽereditàʼ di affetti e sentimenti. E attorno ad un allegorico baule pieno di ricordi, libri, scritti ed altri oggetti lasciatogli da sua madre si consuma lo scontro finale con il padre, dal quale nascerà la possibilità di un rinnovato rapporto tra genitore  e figlio.

Forte e tagliente nei contenuti e nel linguaggio, il testo di Francesco Maria Siani inchioda ciascuno dei personaggi alle proprie responsabilità e omissioni, in un gioco di veleni, accuse e sconvolgenti rivelazioni. In esso realismo e immaginazione sono dosati sapientemente nel delineare il dramma di esistenze segnate da sofferenze e prolungati silenzi, ma nonostante tutto ancora aperte alla speranza e all’amore.

Mescolano durezze e fragilità le interpretazioni di Roberto Nisivoccia e Andrea Palladino, rispettivamente nei ruoli di Saverio ed Enzo, mentre la Marta di Anna Nisivoccia, che dopo il suicidio resta sulla scena come un tenero simulacro che parla alle coscienze dei due in un estremo tentativo di comporne le fratture, è presenza mite, rassicurante, angelica, simbolo di un amore materno che guida i destini dei suoi cari anche dopo la morte. La regia di Francesco Petti, anche attraverso i rapidi flashback di vita familiare in apertura della pièce e la scena in cui Marta tiene tra la braccia – come in una pietà michelangiolesca – un Enzo tramortito dal dolore per le verità sbattutegli in faccia dal padre, riesce ad aprire squarci di poesia in un quadro cupo e asfittico e a creare un rapporto di forte intimità tra il pubblico e la storia, in cui ognuno ha potuto rivedere delle tranche de vie della propria esistenza quotidiana. 

 



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