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“Te lo leggo negli occhi”, la biografia di Carlo Taranto a cura di Domenico Livigni e Roberta Verde

Simone Sormani

Te lo leggo negli occhi. Carlo Taranto, una vita per l’arte è il titolo della prima biografia dell’attore (Napoli 1921-1986), uscita a cento anni dalla nascita e curata da Domenico Livigni e Roberta Verde (Edizioni Morghen, pp. 212), con la prefazione di Benedetto Casillo e contributi di Ennio Bispuri e Corrado Taranto. Mai come in questo caso è doveroso partire proprio dal titolo, tratto da uno dei numerosi film della sua lunga carriera e che richiama la foto di copertina dove, nell’immagine di un giovane Taranto allo specchio, si riflettono sulla fronte ampia due occhi carichi di timidezza e dolcezza. Erano gli occhi di un attore capace di divertire il pubblico con le sue caratterizzazioni, sempre un passo di lato rispetto al più noto fratello maggiore Nino, ma anche di ritagliarsi, in varie occasioni, spazi di autonomia.

Ed era nei suoi occhi che si leggeva tutta l’umiltà e la passione che metteva in questo lavoro, come testimoniato dal figlio Corrado – attuale erede della dinastia Taranto – e da Oscar Di Maio, Nicola Di Pinto, Franco Javarone, Giacomo Rizzo ed altri artisti che ebbero la fortuna di calcare la scena con lui, nelle interviste rilasciate nel libro. Libro che ne ripercorre minuziosamente la carriera passando in rassegna, attraverso un’attenta consultazione di fonti giornalistiche e di archivio, tutti gli spettacoli e i film a cui Carlo Taranto partecipò dal 1934 (quando aveva la tenera età di 13 anni) al 1986.

Dalla rivista degli anni ‘30 al teatro di Samy Fayad, Raffaele Viviani e Gaetano Di Maio, passando per la televisione e il cinema, un viaggio lungo cinquant’anni al fianco di Macario, Luisa Conte, Ugo D’Alessio, Enzo Cannavale, Aldo Giuffrè. E, naturalmente, del “Commendatore” Nino Taranto (come lo chiamavano affettuosamente i napoletani): con lui in scena riusciva ad esprimersi in modo da far si creasse un’alchimia particolare, Carlo come “spalla” e Nino come immenso attore protagonista, cabarettista, macchiettista, al punto da preferire di lavorare per lo più nella sua Compagnia – nelle lunghe tournée che toccavano l’intero Stivale con centinaia di repliche – e di rifiutare addirittura un’offerta importante che gli venne da Eduardo De Filippo.

Carlo e Nino Taranto

Lo sostenevano una simpatia innata, che scaturiva dalla maschera scavata del suo volto di uomo minuto, l’abilità nel trasformarsi anche fisicamente sul palcoscenico fino a rendersi a volte irriconoscibile, la capacità di caratterizzare in senso comico i personaggi. Era insomma un Pulcinella dalla «faccia sofferta, affamata» (Massimo Wertmüller), o un Arlecchino al servizio però di un solo “padrone”, quel fratello che lo aveva avviato giovanissimo al teatro e al quale lo legò per sempre un profondo legame affettivo e artistico fino a quel fatidico 1986, anno in cui morirono entrambi a distanza di un mese.

Ma fu tra gli anni ‘70 e ’80, nella Compagnia del Teatro Sannazzaro di Napoli, che Carlo acquisì «un peso interpretativo che fino a quel momento aveva raggiunto in poche occasioni» in alcune commedie di Gaetano Di Maio (ricordiamo Arezzo 29 in tre minuti, Nu bambenniello e tre San Giuseppe, Don Pasca’ fa acqua ‘a pippa, Gennaro Belvedere testimone cieco, Madama quatte solde), ma soprattutto nell’immortale farsa La morte di Carnevale in cui, scrisse Enrico Fiore in un articolo sul «Mattino» riportato nel volume, conferì al celebre personaggio dell’avaro usuraio vivianeo «i connotati di un’emblematicità relativa alla mai sopita “crudeltà” dell’anima napoletana».

Le sue doti di gregario di successo le portò anche al cinema, dove lavorò come caratterista in ben 54 pellicole tra commedie, film drammatici e musicarelli. Si ricordano in particolare le sue partecipazioni a Il medico e lo stregone di Mario Monicelli (1957) con Vittorio De Sica e Marcello Mastroianni, al capolavoro di Nanni Loy Le quattro giornate di Napoli (1962) e a Il presidente del Borgorosso Football Club (1970) di Luigi Filippo D’Amico con Alberto Sordi.

E proprio sfogliando le pagine di questo libro nasce il rimpianto per un talento che il cinema nostrano non seppe sfruttare abbastanza, se non in ruoli minori, forse, come afferma il critico Ennio Bispuri nel suo contributo, «per la solita pregiudiziale che di Taranto ce n’era uno solo e si chiamava Nino». Talento che traspariva anche solo dallo sguardo schivo e profondo di quel grande attore che fu Carlo Taranto.

 

 



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