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Intervista al collettivo Mind the Step, in scena al Piccolo Bellini con “Fog”

Simone Sormani

È in scena al Piccolo Bellini di Napoli fino al 20 marzo Fog, del giovane collettivo Mind the Step. Un titolo misterioso, enigmatico. Un richiamo a quella nebbia che avvolge le nostre vite e, spesso, ci impedisce di vedere e comprendere, di distinguere il falso dal vero e il bene dal male. La nebbia della realtà virtuale, in cui siamo sempre più immersi. FOG è una pièce che parla di noi, del nostro presente e dei rischi che corriamo nell’attraversarlo con poca consapevolezza. Non indica soluzioni, ma traccia un percorso per comprenderlo meglio. Si potrebbe cominciare spegnendo per qualche ora cellulari e tablet e andando a teatro, il luogo dove la nebbia si dirada e si possono vivere emozioni vere. Ne parliamo con Francesco Ferrara e Salvatore Cutrì, rispettivamente autore e regista.

Questo lavoro è un prodotto del collettivo Mind the Step. Come nasce, qual è la sua storia?

S.C.: Ci siamo conosciuti durante il percorso di studio, veniamo tutti dalla Bellini Teatro Factory, l’accademia del Teatro Bellini di Napoli. Il nostro triennio era diretto da Gabriele Russo. Con Francesco Ferrara ho iniziato a collaborare fin da subito, già durante il primo anno di corsi. Affinità? Di sicuro, temi comuni. E poi ci sono Simone, Manuel, Claudia, Salvatore Scotto, Chiara, Eleonora e la soffitta del Teatro Bellini. Le nostre storie sono semplici, quotidiane, immediate. Solo ad un certo punto appare un ostacolo, un inciampo che ci spinge a guardare gli aspetti della nostra società più contorti. Almeno è il nostro intento, poi riuscirci è un altro discorso.

Ed è in accademia che nasce Fog. L’abbiamo costruito a pezzi, in pratica, seguendo le scadenze del Premio Scenario. Dopo la finale, abbiamo ampliato i venti minuti richiesti, per poi debuttare a Dominio Pubblico. Ci siamo fermati, come tutti… quasi tutti. Pandemia, portami via! Dopo due anni, con grande fatica e grazie a qualcuno che ha creduto nello spettacolo, lo abbiamo rimesso in scena, tra la Liguria e il TIP di Lamezia Terme. Ogni volta limandolo, migliorandolo, facendolo crescere. E ora eccoci qui, fino al 20 marzo siamo al Piccolo Bellini, in quella che definiamo la nostra casa.

Foto di Flavia Tartaglia

Chi sono i protagonisti di FOG?

S.C.: Tania, Karla, Paco e Utente. Ma ci sono anche gli attori. Simone Mazzella, Claudia d’Avanzo, Manuel Severino e Alessia Santalucia. Anche loro partecipano alla narrazione. All’inizio, infatti, ci introducono allo spettacolo, ci raccontano le caratteristiche dei personaggi, in un continuo gioco con il pubblico tra stand up comedy, gag e flashback estremamente seri. 

Tania, Karla e Paco sono tre adolescenti assorbiti da una noia che puzza di poche possibilità e centri commerciali, in una provincia immaginaria della nostra penisola. Si conoscono poco, quasi niente, e una sera si incontrano in un centro commerciale, appunto. Per provare a divertirsi fanno un giro di giostra, ma «è da bambini e loro non sono più dei bambini». Si ritrovano a casa di uno di loro. Avviano una diretta, la situazione sfugge di mano, e quella sera, forse, diventano adulti, o forse no, ma qualcosa è successo, anche se non riescono a capire cosa, faticano a mettere a fuoco, a chiarirsi gli eventi. Alla diretta partecipa un Utente, un personaggio volutamente senza nome, che è uno, ma anche tanti. Sta con loro dietro lo schermo, incita i ragazzi ad approfittare di quella situazione così protetta e fintamente intima, chiede di “uscire” le tette, «a volte capita che qualche ragazza sta al gioco e lo fa per davvero».

Foto di Flavia Tartaglia

FOG vuol dire “nebbia”. Che significato ha questo titolo rispetto al testo?

F.F: Muoversi nella nebbia vuol dire muoversi tra forme confuse e oggetti dai contorni indistinti, vuol dire guardarsi intorno tenendo conto di distanze alterate e di una diffusa opacità della vista. Per questo Fog, la nebbia del titolo, rimanda per noi alla scarsa visibilità di chi, pur osservando il mondo circostante, non lo osserva chiaramente e, di conseguenza, non è più in grado di capirlo e interpretarlo.

Il titolo nasce a partire da una riflessione di Bauman sul concetto di “adiaforizzazione”. Con questa parola che non riesco a dire, ma solo a scrivere, Bauman si riferisce al«rendere determinate azioni o determinati oggetti moralmente neutri, escludendoli dalla categoria dei fenomeni a cui si applica il giudizio morale». In pratica, un’insensibilità alla violenza, che deriva da una sovraesposizione alle immagini di sofferenza umana, ma anche dalla distanza tra coloro che osservano e coloro che compiono – o subiscono – violenza. Se così è, se davvero non riusciamo più – o almeno non sempre – ad applicare un giudizio morale alla violenza, allora il rischio è che saltino le categorie di bene e male, di ciò che è giusto o sbagliato fare.

Raccontate di un mondo virtuale, che altera sempre di più la nostra percezione della realtà, ma attraverso la fisicità che è insita nella rappresentazione teatrale. Quali sono state le principali scelte, da un punto di vista drammaturgico e della messinscena, per rendere possibile questo cortocircuito?

F.F.: Fog parla di una violenza che non viene riconosciuta pienamente come tale, né da chi la compie, né da chi la subisce e neanche da chi la osserva. Per farlo ci muoviamo su un confine sottilissimo. Mostrando, ma non mostrando mai abbastanza. Dicendo, ma non dicendo mai abbastanza. È un equilibrio che abbiamo cercato a lungo e forse trovato. C’è un momento dello spettacolo, ad esempio, il momento che segue la fine della diretta, e quindi l’evento centrale del racconto, in cui le parole lasciano quasi totalmente il posto al silenzio. Pochissime parole per raccontare il cambiamento interiore dei personaggi, un cambiamento che non è comprensibile in maniera netta, né per loro, né per il pubblico.

Più in generale, nella fase di scrittura mi sono affidato a un doppio livello, uno puramente narrativo, a momenti didascalico, e uno dialogico. In questo modo ho potuto dosare le informazioni che gli attori passano al pubblico ed evocare un immaginario che scenicamente non poteva essere mostrato, quello della provincia, dei centri commerciali, dei McDonald’s lungo le statali, un immaginario per me protagonista quanto i personaggi.

S.C.: Siamo partiti da una pluralità di elementi, codici e oggetti. Ma lungo il percorso ci siamo accorti che il virtuale per noi è ormai il reale, dire “avvio una diretta’ è come dire ‘facciamo una passeggiata’, sappiamo cos’è ed è facile immaginarlo. Per questo motivo abbiamo scelto di non usare alcun dispositivo tecnologico. Non volevamo parlare di dirette streaming attraverso l’uso in scena dei cellulari, bensì attraverso uno spazio scenico vuoto. Penso sia più efficace parlare di virtuale utilizzando solo lo strumento non virtuale cardine nel teatro: gli attori. Ecco che tre sedie e i corpi degli attori bastano a creare un’altalena tra racconto e vissuto, tra mediato e immediato, tra virtuale e reale. 

C’è poi il tema della violenza che, filtrata attraverso gli schermi di cellulari e pc, ci sembra più normale o moralmente neutrale. Il teatro può, da questo punto di vista, indurci a riconoscere il male per quello che è e portarci verso una maggiore empatia verso le vittime?

F.F: Credo di sì, il teatro può e mi vengono in mente risultati efficacissimi in questo senso, ma non credo sia il nostro caso. O almeno il nostro intento va in un’altra direzione. Ciò che noi volevamo era mettere anche lo spettatore – così, come dicevo, i personaggi – in una condizione di incertezza interpretativa, concedendo a chi guarda lo spettacolo la possibilità – e anche lo sforzo – di chiarire in autonomia il suo sguardo. Più di una volta ci è capitato di parlare con spettatori che tra loro avevano posizioni opposte. È proprio questo che ci interessava.

In ogni caso, non volevamo esprimere giudizi, ma solo provare a osservare insieme al pubblico ciò che succede intorno a noi. Portiamo in scena una storia semplice, lineare, ma comunque orribile, raccontata in modo diretto e acritico, nella speranza che questo possa produrre domande alle quali, in sostanza, ci sembra così complicato rispondere.

FOG è un lavoro di giovani che parla ai giovani. C’è qualche possibilità di farli uscire dalle trappole di una vita virtuale e di promuovere un uso più consapevole dei dispositivi digitali?

S.C: Boh, speriamo di sì! Dirò una banalità, ma per questo dobbiamo investire sulla scuola e sul dialogo con i giovani, pur restando il fatto che c’è già una grande comunità di giovani che utilizza i social in maniera consapevole, non solo per darsi appuntamento e menarsi.

F.F: Non è una banalità, ma un dato di fatto. Leggevo che l’Italia è tra gli ultimi paesi in Europa in termini di competenze digitali. Ci sono molte iniziative, anche nella scuola, ma sparse e prive di un coordinamento. Non c’è una strategia condivisa di formazione per le nuove generazioni – anche se non andrebbero formate solo le nuove generazioni, ma questo è un altro capitolo. Insomma, si fa, ma non abbastanza. Il risultato è che siamo tutti connessi, senza però avere chiaro il potenziale – positivo e negativo – dei mezzi digitali che quotidianamente utilizziamo. E il rischio di una mancanza di cultura digitale è una pericolosa disattenzione verso i principi etici, morali e verso il rispetto dell’individuo nella sua totalità.

 

[Immagine di copertina: foto di Valeria F. De Marco – CFI Teatro]



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