Arti Performative

Vittorio Franceschi e Alessandro D’Alatri // Il cappotto

Marcella Santomassimo

Vittorio Franceschi riprende il racconto di Gogol per adattarlo liberamente alla scena teatrale senza mai perdere di vista il carattere grottesco e ironico dei personaggi, ai quali dimostra di essersi accostato con estrema cura.


 

«Mi sono rivolto ad uno scrittore classico russo perché i caratteri del suo racconto sono caratteri universali ed esemplari e quindi i valori della storia raccontata da Gogol sono validi in qualunque parte del mondo ed in qualunque tempo».

Così asserì Alberto Lattuada nel 1952, al debutto del suo film ispirato al racconto di Nikolaj Vasil’evič Gogol, Il Cappotto. Un pensiero di certo condiviso da Vittorio Franceschi che riprende il racconto dello scrittore russo per adattarlo liberamente alla scena teatrale. Pochi dialoghi nel tessuto originale, che Franceschi arricchisce senza mai perdere di vista la trama principale e il carattere satirico, grottesco e ironico dei personaggi, ai quali si accosta con rispetto, dedizione ed estrema cura.

Gogol e Franceschi si fondono insieme, difficile percepire dove finisca l’uno e dove cominci l’altro, spalleggiati dalla giusta regia di Alessandro D’Alatri, al quale Franceschi si affida di nuovo dopo il successo ottenuto nel 2006 con Il sorriso di Dafne, spettacolo vincitore del Premio Ubu, e le scene in bilico tra gusto simbolista e realista di Matteo Soltanto.

Siamo a Pietroburgo, il grande inverno russo sta per arrivare e gli scarafaggi portano a rammendare il vecchio cappotto. Il sarto Petròvič (interpretato da Umberto Bortolani) ex servo della gleba, ubriacone a tempo pieno, genio e delirante apre la pièce e c’introduce nelle atmosfere di una città che giace nel suo freddo, fatta di personaggi loschi, approfittatori, di misere vite dove la cecità burocratica e la tirannia sono come una coltre che avvolge tutto. La scena è divisa in tre parti: sulla destra la bottega del sarto, a sinistra il lettuccio di Akàkij Akàkevič, copista di pratiche burocratiche per passione e per discendenza, e al centro l’incombente studio ministeriale costruito con una moltitudine di faldoni scuri. Sul fondale due alte fronde secche si stagliano, misere come l’esistenza. Come ci aveva preannunciato Petròvič, l’inverno sta per arrivare e Akàkij Akàkevič deve fare i conti con un vecchio cappotto diventato talmente lercio e logoro da sembrare una vestaglietta. Coperto da piccoli ma ingombranti debiti, l’impossibilità di potersi permettere un cappotto nuovo diventa per Akàkij motivo di profonda tristezza finché una cospicua e inaspettata gratifica per Natale gli permette di correre da Petròvič per farsi confezionare un cappotto marroncino cachi con collo di pelliccia di gatto di Parigi. Deriso, maltrattato e offeso da colleghi e superiori che passano il tempo a prendersi gioco di lui, Akàkij grazie al suo cappotto finisce improvvisamente nel mirino delle loro attenzioni e in suo onore viene persino organizzata una festa con tanto di musica, donne e champagne. A suo agio solo nell’intimo della sua cameretta, e con un fascicolo di carte da poter ricopiare, Akàkij si avvia per ritornare a casa. «Se sei solo e infelice, le forze del male se ne accorgono subito» e l’uomo viene aggredito da due malviventi che gli portano via il cappotto sotto gli occhi di un vile e omertoso gendarme. Akàkij impietrito e infreddolito muore nel suo letto sotto gli occhi della sua padrona di casa Agrafèna Ivànovna (Federica Fabiani). Franceschi elimina il finale fantastico che vede Akàkij diventare un fantasma e andare in giro a rubare cappotti ai signori. Un contrappasso, una scena che rientra a pieno titolo in quel filone del realismo magico di cui Franceshi preferisce non servirsi. La storia di Akàkij termina così, senza vendetta né possibilità di redenzione da parte dei più forti – come, invece, accadeva in Canto di Natale di Charles Dickens, romanzo scritto negli stessi anni. Come Dickens, Gogol trae la linfa dei suoi racconti dalle strade fino a creare un personaggio come Akàkij Akàkevič, umile, compassionevole, un povero Cratchit russo, che trema per lo stesso freddo.

Franceschi costruisce il suo personaggio riservandogli un’attenzione quasi maniacale: i piccoli passettini per non far rovinare la suola delle scarpe, lo sgusciamento fuori dal cappotto per tentare di non strapparlo, il suo fare buffo e dolce allo stesso tempo, tanto da generare compassione in una introversa affittacamere, che in sua presenza finisce sempre con l’addolcirsi, e in Olga Semiònovna (impersonata da Marina Pitta), la moglie del sarto, che lo ripara dalle manie di grandezza e dai capricci del marito. Verrebbe da dire quasi un Fantozzi ottocentesco, grottesco ma senza eccessi, costruito alla perfezione. Quello che Franceschi e D’Alatri hanno confezionato può definirsi senza dubbio uno spettacolo riuscito con picchi di bellezza e di poetica che appare, oggi, in un clima di degrado sociale, economico e umano quanto mai attuale.


Dettagli

  • Titolo originale: Il cappotto

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