Cinema Il cine-occhio

Time

Stefano Valva

Di primo acchito, il documentario prodotto da Amazon e disponibile su Prime Video dal titolo estremamente astratto – ossia Time – può sembrare una copiosa e corposa analisi filosofica sulle funzioni, anzi soprattutto sul fluire incessante del tempo. In parte lo è, perché l’opera diretta da Garrett Bradley senza dubbio si lascia affascinare da pensieri profondi ed eterni ragionevoli dubbi sull’essenza misteriosa, effimera e potente della temporalità, eppure contestualizzandola all’interno di una storia vera, coinvolgente e sottile. 

Nell’anno non solo di una pandemia mondiale, ma anche di una forte sensibilizzazione sociale – sfruttando appunto le conseguenze psicologiche e culturali sull’impatto che ha avuto il Covid19 sulle masse – in America da parte del movimento Black Lives Matter (scaturito soprattutto dopo la tragica morte di George Floyd, da parte di un poliziotto bianco), un film del genere, ossia basato anche sulla denuncia pubblica verso la giustizia statunitense, nello specifico in rapporto alla comunità nera, colpisce ancora di più ed ottiene per forza di cose più eco all’interno del palinsesto on demand, momentaneamente unica dimora – a causa della chiusura delle sale – per le arti visive tradizionali e contemporanee. 

L’incipit di Time, immerge senza introduzioni del caso immediatamente lo spettatore all’interno della routine familiare della casa di Sibil Fox Richardson, attraverso dei video di repertorio che mostrano la sua gravidanza – è in attesa di due gemelli – mentre il marito è stato condannato a ben 60 anni di carcere per aver rapinato – insieme a lei – una banca. 

Nel complesso, i video amatoriali fungono non solo da macchina dei ricordi utilizzandoli come flashback, non solo da materiale nostalgico per riecheggiare e rivivere importanti eventi familiari, bensì compongono una sorta di diario che la famiglia scrive – anzi filma – per poi mostrarli al marito/padre, che si sta perdendo negli anni gran parte della sua vita, e della sua vita con loro. 

È indubbio che c’è anche un quarto ruolo, perché le immagini amatoriali rientrano anche nell’esplicita denuncia che il film compone attraverso la storia di una semplice donna, madre e moglie afroamericana. E lo fanno insieme a quelle puramente cinematografiche, ove Sibil dopo anni diviene una celebre attivista sul tema delle carceri e della giustizia, mettendo in luce l’insito razzismo all’interno dei dipartimenti di polizia, delle corti di giustizia, e nei meandri delle leggi federali americane, alquanto lontane da una forma democratica modernista. 

Reportage, amatoriale e forma cinematografica creano un pastiche sullo sfondo di una critica profonda, non ad un presidente autoritario, non ad un ente o ad una personalità influenti, bensì ad un mega-sistema odierno stratificato, e che vive nell’ombra, poiché oramai normalizzato (ed ancora più spietato nel microcosmo dello stato della Louisiana). Il tutto, è scandito da un decoupage ove ne fa da padrone il bianco e nero, che non ha scopi estetici o artistici, bensì unisce le varie temporalità della storia d’amore e familiare, per renderle un tutt’uno e unire un puzzle, ove le sequenze siano senza un tempo che sia semplicemente determinato, così da non far divenire il racconto ridondante. 

Poi – come anticipato – non mancano le diagnosi e i quesiti sul tempo, non solo su cosa esso sia, ma anche sul come viene affrontato e trascorso, in base alle scelte che si fanno, in base a come caratterizzi l’angoscia, l’attesa, la mancanza, gli affetti perduti e il desiderio, ossia quello di viversi e di riviversi, quello del vedere la luce in fondo al tunnel, quello del credere alla speranza anche negli attimi più oscuri, quello di metabolizzare i propri errori e avere l’opportunità di ricominciare la rispettiva vita. Va specificato, che tali discorsi sono spesso aleatori, e non vengono approfonditi dalla sceneggiatura, troppo persuasa e impegnata nel caratterizzare la storia, per poi sensibilizzare un pubblico, che non approvi politicamente il sistema ambientale e sociale nel quale vive. 

Se per esempio, in prodotti dalla tematica simile (si pensi ad un’interessante serie tv Netflix, ossia When They See Us, creata da Ava DuVernay) la denuncia sociale era ancora più reiterata e prepotente, poiché basata su una totale ingiustizia che andava di pari passo con l’assurdità e l’insensatezza, la comunità nera di Time – attraverso la storia di una famiglia della classe media – è un gruppo sociale anche consapevole delle proprie debolezze e degli errori, delle scelte, degli immancabili lati negativi, eppure ciò non può giustificare l’essenza di uno stato, che in tempi moderni dovrebbe garantire il riassorbimento della società, nei confronti di persone che hanno commesso degli errori, seppur gravi. Quest’ultimi, devono lo stesso avere il diritto di riottenere prima o poi la loro vita, ergo una seconda possibilità. 

E anche se nelle storie più belle tutto possa finire con l’arrivo della serenità, anche dopo tante sofferenze, lotte e rimorsi, niente ridà il tempo, niente e nessuno ti risarcisce il tempo, che può essere solamente inglobato oggi dentro immagini meccaniche, e mostrato a chi se l’è perso, per navigare in quello che non ha vissuto, in quello che poteva essere. Nonostante ciò, nemmeno una macchina digitale può realmente ridarlo, neanche la potente macchina del cinema, della ripresa e della digitalizzazione, possono costituirsi come dispensatrici di un tempo, che è materialmente e umanamente perduto. Quello forse è la sofferenza più grande in storie come quella di Sibil e della sua famiglia, eppure dall’altro lato della medaglia è anche un’opportunità da sfruttare, perché il perduto lo si può metabolizzare, per godersi al meglio tempi successivi, e se non recuperare, almeno assaporare gli attimi che con un pizzico di fortuna il fato ti riporta.  

D’altronde, un film come Time fa riflettere anche sulla questione che non bastano le belle parole, per mutare un sistema variegato e macchiato dalla dottrina delle accuse, delle colpe e delle punizioni. Serve una sensibilizzazione strutturata, che sia di natura etica, umana, etnica e culturale. L’american dream di Time non è – almeno non solo – basato sulla logica che il duro lavoro e le spiccate qualità prima o poi ti consegnino il successo, altresì è fondata sul desiderio e sulla determinazione, ossia quelle che potrebbero far costruire – con nuove fondamenta – un’America in primis ideologicamente post-modernizzata, nonostante sia ancora impossibile da intravedere. 


  • Diretto da: Garrett Bradley
  • Prodotto da: Garrett Bradley, Kellen Quinn, Lauren Domino
  • Musiche di: Jamieson Shaw, Edwin Montgomery
  • Fotografia di: Zac Manuel, Justin Zweifach, Nisa East
  • Montato da: Gabriel Rhodes
  • Distribuito da: Amazon Studios
  • Casa di Produzione: Concordia Studio, The New York Times, Outer Piece, Hedgehog Films
  • Data di uscita: 25/01/2020 (Sundance), 09/10/2020 (USA), 16/10/2020 (Amazon Prime)
  • Durata: 81 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Inglese
  • Budget: Meno di 10 milioni di dollari

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