Cinema Il cine-occhio

Strada a Doppia Corsia

Stefano Valva

Omaggiare in toto un’artista attraverso l’analisi di una singola opera è già di per sé un’impresa ardua (un po’ come esclama Mank nell’omonimo film diretto da David Fincher in relazione alle narrazioni cinematografiche, ossia che non si può raccontare la storia di un uomo in due ore, puoi solo dare l’impressione di averlo fatto), anche se quell’autore è Monte Hellman, uno che non ha la filmografia corposa come quella dei suoi coetanei o di altri vicini al suo modo di fare cinema.

Eppure, in una carriera caratterizzata non solo di film di finzione, ma anche di cortometraggi e documentari, diviene ad ogni modo complicato scegliere un prodotto che sia esaustivo ai fini del ricordo di un regista – scomparso lo scorso mese – che nel suo piccolo rappresenta un filone importante del cinema moderno, quello delle avanguardie, delle rivoluzioni, delle contro-culture e della New Hollywood, quindi un cinema che in poco tempo da inedito è divenuto storico.

Una carriera che vede l’esordio nel 1959 con Beast from Haunted Cave, e che ha il vero trampolino di lancio nel 1971 – anche se l’opera verrà apprezzata successivamente – con l’uscita di Two Lane Blacktop (in italiano Strada a doppia corsia), un film che probabilmente può essere sia di copertina per la carriera di Hellman, sia un rappresentante del filone dei road movie dagli Anni ’70 in poi (i quali hanno tra gli altri come pioniere Il Selvaggio, László Benedek, 1953, con un indimenticabile Marlon Brando).

Come accennato, Two Lane Blacktop non è un road movie per etichetta bensì per sostanza, perché l’opera è tout court un viaggio in auto intorno alle lande desolate degli Stati Uniti. In tale cammino verso l’altrove, l’ignoto, possono susseguirsi svariate vicissitudini ed eventi inattesi (un po’ come nel genere western e in certi casi anche nella science fiction).

Un ragazzo e il suo meccanico partecipano assiduamente a delle corse clandestine per guadagnare soldi. Quando in una notte vengono interrotti bruscamente dalla polizia, decidono di partire per cambiare aria verso l’east coast a bordo di una Chevrolet 150 modificata e riassettata. Negli Anni’70 la country land pullula di hippie che fanno l’autostop, in fuga dalle rispettive città e famiglie per costruirsi una vita senza convenzioni sociali. I protagonisti danno infatti un passaggio ad una ragazzina, la quale accende un triangolo amoroso pericoloso. Infine, ai tre si aggiunge un uomo misterioso alla guida di una Pontiac GTO, che si ritrova sulla medesima Route.

Nel 1971, l’opera di Hellman si inscrive non solo all’interno delle avanguardie – sorte da un decennio – e di un nuovo cinema sperimentale americano, altresì nella fiorente New Hollywood (sono molteplici le comunanze stilistiche e tematiche con i primi lavori di Robert Altman o di Martin Scorsese).

Qui il road movie è sia una iconografia della società americana dell’epoca, sia un archetipo della narrazione postmoderna, ossia la fine della grande narrazione (infatti il film ha un plot incoerente e che muta in continuazione, quindi senza uno schema classico) e dalla mancanza di empatia tra i personaggi. L’impressione è che la macchina da presa abbia una coscienza ben più definita delle figure umane che si interfacciano nelle sequenze (quella famosa coscienza della materia cinematografica attraverso l’utilizzo della semi-soggettiva, e definita così da Jean Mitry in riferimento al pensiero sul cinema in primis di Pasolini).

La camera raffigura con campi lunghissimi, carrellate e piani sequenza i personaggi durante il viaggio in auto, gli inseguimenti e le gare, spesso soffermandosi anche sui paesaggi e sulla scenografia. Qui i protagonisti entrano ed escono dal quadro: loro stessi seguono il movimento e la posizione della camera e non viceversa, a discapito di una centralità della figura umana nelle narrazioni, che in alcune scene viene snaturata dal regista.

Il rifiuto di un cinema romantico, onirico e come alterazione della realtà, in virtù di una narrazione e di una conseguente mise en scene nuda e cruda, cinica e spassionata, contorta e incongruente; quel cinema del girovagare, della mancanza di affetti ed obiettivi specifici, della perdita del senso e delle ambizioni, poiché sono rimaste soltanto la sopravvivenza, le pulsioni e le ossessioni. Un cinema all’epoca sulle nuove generazioni, sullo spirito di rivoluzione e sullo spaesamento (anche) degli hippie e del mondo studentesco.

Un’opera sui generis e spartiacque all’interno della filmografia di Monte Hellman, interessante tra l’altro anche per irriverenti western e horror, che hanno dei sottili eppur profondi punti in comune con Two Lane Blacktop. Un autore che nel momento della scomparsa, ha riecheggiato in tutti un cinema prettamente autoriale – illo tempore di una nuova e ricercata autorialità, al di fuori dello star system – che sembra ancora odierno. Invece, è già diventato un cinema di ieri (o almeno, più ai margini dell’offerta annuale) a causa di una logica artistico-commerciale, costituita e condizionata dal digitale e dal fenomeno sociale del politically correct.



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