Cinema Il cine-occhio

Minari

Stefano Valva

Per chi si accingesse alla visione di uno dei film-sorpresa dell’anno – scritto e diretto da Lee Isaac Chung – il Minari è una delle piante tipiche di un paese erborista come il Giappone. Nel caso specifico, l’erba è utile in gastronomia – infatti viene considerato il prezzemolo nipponico –  come condimento, anche se le proprietà sono varie, arrivando fino a quelle curative o di culto, poiché nei dogmi orientali, il rapporto tra l’uomo e la natura è un tema sensibile, anzi quasi religioso. 

Allora perché intitolarlo Minari? Tra gli altri, vi sono senz’altro dei motivi lapalissiani intra-visione: La pianta diviene un personaggio all’interno della narrazione (così come nella letteratura postmoderna, gli oggetti sono dei characters rilevanti), poiché influenza la vita quotidiana di una famiglia coreana emigrata negli Stati Uniti, la quale cerca di rincorrere un rispettivo american dream, trasferendosi dalla costa occidentale verso le lande interne dell’Arkansas, per crearsi una fattoria. Poi, perché il Minari diviene sia totem, sia archetipo, ergo rappresenta – attraverso scene delicate e sfumate – la natura che nel dietro le quinte del mondo odierno tecnologico ed industriale, protegge la propria purezza dalle trame distruttive dell’umanità, non curante delle potenzialità infinite degli ambienti naturali. 

Il viaggio della famiglia – guidata da un padre sognatore interpretato dall’ex star di The Walking Dead, ossia Steven Yeun – non è solo fisico, quindi del coast to coast negli States alla ricerca del locus più adatto ove insediarsi, bensì è allo stesso tempo spirituale, di riscoperta delle proprie origini – su ciò il personaggio della nonna è esemplificativo – e quindi di riscoprire proprio quell’amore per la natura, capostipite in un’etnia orientale. 

Oltretutto, rincorrere un sogno in uno spazio socialmente difficile è alquanto complicato (anche se tale tema viene poco toccato dal regista, che inserisce i personaggi in una sorta di America rurale a tratti idilliaca e progressista, così come ce la si immagina dall’esterno) dato che vige una faida originaria tra Corea – seppur quella del Nord – e USA, per via dell’ormai lontana guerra degli Anni ‘50, che le comunità country non hanno dimenticato, rendendo ancora oggi in evoluzione una convivenza pacifica, nella nazione più multietnica del mondo. 

Sia il Minari, sia la storia nel microcosmo di una semplice famiglia immigrata, amplificano e sottolineano qualcosa di più esteso, qualcosa che riguarda tutti noi, qualcosa per la quale oggi si dovrebbe lottare: l’ambiente e di conseguenza il cibo. Attraverso – come anticipato – delle scene sfumate che non vengono esautorate o esasperate in virtù di un cinema che per il regista di origini coreane deve rimanere più artistico possibile, e non un semplice slogan pubblicitario da premiare (per quanto riguarda le premiazioni, il film che ha esordito nel 2020 al Sundance e che ha ricevuto il Golden Globe come miglior film straniero, ora è candidato a 6 Oscar), e allora che funzionino da espediente sia per le vicissitudini dei personaggi, sia in virtù di sequenze dal profondo significato, che si collegano alla realtà che lo spettatore sta vivendo. 

Tale famiglia inoltre, rappresenta diverse sfaccettature dell’umano: lotta per la natura, è pronta anche a rovinarsi economicamente, a dividersi, pur di rincorrere un sogno, ossia quello di creare qualcosa di puro e genuino in un contesto odierno impuro e digitalizzato, pur di rispettare le proprie origini, pur di non rendere vano l’abbandono del proprio paese, pur di dare un futuro diverso ai figli, un futuro caratterizzato dalla serenità e dalla bellezza, dal godersi le magnificenze della terra e dell’ambiente circostante. D’altro canto, i personaggi raffigurano anche la negligenza, la non-curanza, la perseveranza, e proprio tali azioni e non-azioni possono comportare la rovina dei rapporti umani e di quelli con la natura stessa, la quale però agisce come una sorta di divinità misericordiosa, perché essa è sempre pronta ad aiutare chi ne ha bisogno anche nei momenti più tenebrosi, anche lì dove si crede di aver fallito e di cadere nel baratro. 

Proprio quella pianta di Minari – nascosta nei meandri di una piccola palude ed accarezzata da una corrente d’acqua incontaminata – si troverà sempre lì nei momenti clou, sia come aiuto incondizionato verso l’uomo, sia come archetipo delle tradizioni coreane, che ricordano ai personaggi da dove provengono. Mens sana in corpore sano, e quindi un corretto utilizzo di alimenti freschi, naturali e salutari – che si intrecciano durante le sequenze delle cene – aiutano magicamente a rinvigorire lo spirito e addirittura a superare o ad affrontare con maggior disinvoltura momenti delicati. È la purezza di una famiglia che vuole vivere a tutti i costi nella naturalità delle cose e dell’anima, la purezza di un catechista che porta letteralmente la croce come Gesù per le statali aride dell’Arkansas (una scena tanto misteriosa e decontestualizzata, quanto affascinante e pungente) così da sottolineare la pigrizia di una società apatica e giudiziosa, contro l’impurità di una logica capitalistica che non è riuscita nel contesto rurale a deturpare tutto ciò che rimane dell’inizio dei tempi, di primitivo e di secolari usanze tramandate. 

Minari è un film in apparenza monotematico, eppure è allo stesso tempo così poliedrico da poterlo categorizzare attraverso molteplici definizioni, per via di svariati elementi che si interfacciano nella narrazione. Si potrebbe dire che è un’opera ambientalista, naturalista, sociale o culturale, esistenziale o sociologica, politica o antropologica. Così poliedrica appunto, per il suo essere sfacciatamente realista, eppure con tinte di immaginario, di surrealismo, di onirismo; per il suo essere dichiarativa ed esplicita, eppure a tratti sfumata e metaforica. Non un semplice film del momento, del quale si ha bisogno oggi per una sensibilizzazione su di uno specifico aspetto (nonostante si armonizzi ad hoc con la realtà contemporanea), bensì una pellicola che ha anche dei valori artistici, perché è sempre difficile per un autore riuscire a razionalizzare temi, questioni e rapporti che sono fin troppe volte astratte/i, e quindi renderli godibili e coinvolgenti, attraverso una porzione di macrocosmo, ove la natura inoltre, viene esaltata anche dalla fotografia caratterizzata da luci luminose – che irradiano l’occhio dello spettatore – e dai campi lunghi. Un’opera vicina alla realtà, ma che non dimentica allo stesso tempo di dover e voler essere alterazione della stessa. Il giusto découpage che crea l’atto di potenza per l’arte visiva. 


  • Diretto da: Lee Isaac Chung
  • Prodotto da: Dede Gardner, Jeremy Kleiner, Christina Oh
  • Scritto da: Lee Isaac Chung
  • Protagonisti: Steven Yeun, Han Ye-ri, Alan Kim, Noel Kate Cho, Youn Yuh-jung, Will Patton
  • Musiche di: Emile Mosseri
  • Fotografia di: Lachlan Milne
  • Montato da: Harry Yoon
  • Distribuito da: Academy Two (Italia), A24 (USA)
  • Casa di Produzione: Plan B
  • Data di uscita: 26/01/2020 (Sundance), 12/02/2021 (USA)
  • Durata: 11 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Coreano, inglese
  • Budget: 2 milioni di dollari

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