Libri

Economia dell’imperduto

Carmen Navarra

“L’economia dell’imperduto ha sempre a che fare con la gratuità. Che la si chiami spreco di parole o atto di grazia dipende da noi”.

Nell’epilogo del saggio Economia dell’imperduto (Utopia Editore, 2020) l’autrice Anne Carson – dopo aver brillantemente analizzato la sua argomentazione con uno schema di hegeliana memoria (tesi-antitesi-sintesi) – approda alla suddetta conclusione. Il saggio, pubblicato per la prima volta nel 1999 e tradotto in italiano da Patrizio Ceccagnoli, ha una dirompenza filosofica che tuttavia poggia solide basi sull’esegetica e la filologia greche. Carson (classe 1950) è una classicista e traduttrice, studiosa della lirica (Simonide, Saffo) e della tragedia greche (Eschilo, Sofocle, Euripide). Il suo acume applicato agli studi dettagliati del mondo antico ha prodotto saggi di inarrivabile spessore come Economia dell’imperduto. Con queste premesse, si prova a dare in questo spazio una lettura, senz’altro frammentata e prospettica, di come nei secoli la poesia sia diventata “merce di scambio” : il percorso comincia nell’antica Grecia – con il poeta Simonide di Ceo – e prosegue nella Germania nazista – con lo scrittore rumeno Paul Celan che visse direttamente i soprusi dell’Olocausto –.

Nelle pagine finali la scrittrice sembra aver disvelato tutti (o quasi) gli interrogativi che mettono in rapporto il “lógos” (la parola) con l’economia poiché tra questi due elementi apparentemente lontani si è interposta la voce dei due poeti citati. Gratuità è una parola-chiave del saggio in quanto Carson nel primo dei quattro capitoli intitolato “Alienazione” spiega le cause che hanno determinato il passaggio dallo “scambio di doni” (xenía) alla “moneta” definita come “piccolo oggetto metallico equivalente a ogni cosa al mondo”: nella Grecia pre-simonidea lo “scambio di doni” implica la cosiddetta “ospitalità”, indica, cioè, il rapporto materiale e morale tra due soggetti (l’ospite e l’ospitante che fanno e ricevono doni) e non prevede nessun valore mercantile: “è un sistema socio-culturale in cui gli elementi della vita economica sono radicati in istituzioni non economiche”. La nascita della moneta spezza la natura primordiale di questo rapporto poiché il dono diviene merce e i soggetti diventano due estranei, ovvero si determinano vicendevolmente non più attraverso una mutua ritualità ma attraverso il denaro che li aliena (il denaro è simbolo di alienazione, scriverà Marx). “Xénos” acquisisce pertanto il duplice significato di “ospite” (ovvero colui o colei che agisce lo scambio di doni) e, con l’avvento della moneta, di “estraneo” . Tra i due significati oggi – e aggiungerei in un’ottica inevitabilmente capitalista – prevale il secondo. Si pensi alla parola “xenofobia” che in italiano traduciamo come “paura” (fóbos) dello straniero (xénos) e che è diventata il vessillo della politica populista delle destre. Simonide di Ceo si fa portavoce di tale passaggio, essendo il primo poeta greco a comporre poesia a pagamento, a “mercanteggiare” l’arte. Tornando alla citazione dell’epilogo, la prima definizione di “imperduto” – ciò che si è perduto nei secoli a causa della nascita della moneta – potrebbe essere, appunto, la scomparsa della gratuità applicabile ai gesti, alle relazioni e, oserei dire, al vivere comune.
Nel secondo capitolo “Visibili invisibili” l’imperduto sembrerebbe collocarsi tra i due estremi del titolo che in realtà sono complementari. In Simonide questa coppia antinomica viene celebrata nel frammento “Lamento di Danae” in cui madre e figlio neonato (il futuro Perseo, noto uccisore della Medusa) vengono rinchiusi in un’arca e gettati in pasto al mare procelloso. Mentre Danae è conscia di quanto accade – vede e vive il dramma – il piccolo Perseo “dorme quietamente nei sogni di bambino”, la sciagura, cioè, è altro da lui. Il poeta greco ha l’abilità di fondere nella mente l’invisibile e il visibile come appartenenti alla medesima realtà; per estensione la prima dimensione apparterrebbe al “lógos” – la parola è un “inganno” (apaté), come sosterranno più tardi i sofisti, detta in altre parole “manipolazione della forma in funzione dei contenuti” – mentre la seconda sarebbe propria dell’ “eikón” (immagine). Al lettore è offerta la realtà nella sua duplice accezione (la disperazione di Danae e l’indifferenza di Perseo). In Simonide infatti “la parola è l’immagine delle cose”. Con un salto verso il Novecento, Carson rintraccia anche nella poesia di Celan questo connubio, ma viene aggiunto un tassello non irrilevante: tra l’invisibile e il visibile c’è il linguaggio di Dio che per sua natura supera l’umano e si manifesta nella poesia. “Comprendere e conservare è un dovere del poeta e lo pone in una relazione particolare tra io e tu”. (Carson su Celan).

Rispetto alla citazione dell’epilogo ci si avvicina progressivamente alla seconda definizione di “imperduto” , ovvero lo spreco di parole che trova una sua esplicazione più precisa nei capitoli III (Epitaffi) e IV (Negazione). “Spreco” è parola tipica del linguaggio economico ed ha una connotazione decisamente negativa. Si pensi all’accrescitivo dell’aggettivo corrispondente (sprecone) che tuttavia trova un corrispettivo altrettanto dispregiativo nel suo opposto (avaro). Traslando la parola dal campo economico a quello linguistico e letterario, si potrebbe dedurre che le parole sprecate sono di fatto le parole che avremmo potuto o dovuto evitare sia perché non attecchiscono su chi le ascolta (le cosiddette “parole a vuoto”) sia perché, usandole, abbiamo sprecato fiato e tempo. Nella lingua simonidea non c’è spreco di parole, vi è di contro una scelta curatissima delle stesse, al punto che, secondo Carson, Simonide è il poeta del dettaglio (akríbeia). Per estensione “akríbeia” significa avarizia  (da cui in lingua italiana deriva l’aggettivo “avaro”) poiché la capacità di Simonide di scegliere con cura le parole rende il poeta di Ceo “avaro” nell’uso delle stesse: “Simonide non sarebbe stato avaro, se il linguaggio non fosse una delle economie più rivelatrici di cui l’uomo si avvale” scrive Carson. La manifesta dimestichezza nell’ “economizzare” le parole corroborerebbe l’idea di mercificazione propria dell’attività poetica di Simonide, prima del quale l’arte rientrava nello “scambio di doni” tra chi ospita e chi viene ospitato. L’epitaffio – iscrizione su pietra tombale finalizzata a glorificare ed eternare la memoria dei morti – rappresenterebbe la forma di poesia che tende, più di altre, al risparmio e alla cura delle parole innanzitutto per ragioni di spazio: “sicuramente esiste un’affinità tra gli aspetti materiali della pietra e quelli stilistici del linguaggio. Confrontarsi con le pietre avrà certamente abituato all’akríbeia il poeta in tutte le sue attività manuali, visive e mentali”.

Anche Paul Celan ha scritto epitaffi, il più celebre dei quali è dedicato a Rosa Luxemburg, socialista rivoluzionaria di origini polacche che venne assassinata durante la “Rivolta di gennaio” (1919) dai gruppi paramilitari guidati dal governo di Ebert. Tuttavia il fine di questa composizione poetica non è prettamente encomiastico (come in Simonide) ma – in un’ottica novecentesca – più propriamente consolatorio e ad imperitura memoria. “Né Rosa Luxemburg né gli innumerevoli nomi trovano alcuna salvezza se non nella scrittura”, scrive Carson.

L’acme dell’avarizia simonidea viene toccata nell’atto linguistico del “negare” (Capitolo IV, Negazione), ovvero nell’uso corrente di avverbi negativi o più banalmente della parola “no”. Per Carson la negazione è paradossalmente affermare due volte – che non significa spreco di parole. Negando una affermazione, infatti, Simonide “dipinge” due immagini: la prima rafforzata dal “non” (immagine assente) e la seconda, ossia quella propriamente verbalizzata (immagine presente). “Per festeggiare la città di Tegea, sopravvissuta a una guerra, Simonide scrive <Il fumo di Tegea in fiamme non si è levato nell’aria limpida>”. In questa frase il “non” crea nella mente del lettore e della lettrice l’immagine delle fiamme che tuttavia non si levano nell’aria limpida. La forza del “non” è nella sua presenza assente. In Celan il processo di negazione viene definito “escissione” e ha una sua sinistra natura nella descrizione dei campi di sterminio nei quali venne deportato: “Si può dire che l’universo dei campi di concentramento, per come lo descrive Celan nella poesia “Engführung” (Stretta) è un luogo in cui l’uomo sperimentava la nullità dell’essere, un mondo in cui il niente si è palesato per essere conosciuto”. Sia in Simonide che in Celan il nulla ha una forza drammaticamente evocativa. Conseguentemente l’imperduto è ciò che i poeti conservano con le loro parole e che inoltre può essere inventato – coniato per dirla con un linguaggio economico – attraverso i neologismi: “un neologismo, per esempio, arriva a noi gratuitamente, come un pezzo d’aria nuova”. Si rifletta sull’avverbio usato da Carson per esaltare la potenza dei neologismi. Gratuitamente. Come gratuito è (o potrebbe essere) l’imperduto nella definizione dell’epilogo con cui si apre questo articolo.

Infine Carson nel finale ci porta a credere, a seconda delle nostre inclinazioni (“dipende da noi”), che l’imperduto sia un atto di grazia. Se si considera quanto scritto finora, ovvero che il mestiere dei poeti presuppone l’uso del lógos per evocare immagini, raccontare storie e trascendere i secoli, definire l’imperduto un “atto di grazia” (cháris in greco da cui in italiano deriva la parola “carità”) qualifica la poesia come il passaggio (eterno, aggiungerei) “da un tu ad un io”.

 



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti