Arti Performative

Multiversoteatro // Il canto di Penelope

Carmen Navarra

Nella settimana tra il 16 e il 20 marzo al PACTA SALONE di Milano, per la rassegna DonneTeatroDiritti, la compagnia trentina Multiversoteatro ha portato in scena Il canto di Penelope di e con Michela Embrìaco. Tratto dall’ omonimo romanzo di Margaret Atwood (Il canto di Penelope, Rizzoli, 2005), questa storia ha lo scopo di restituire un’altra immagine del principale personaggio femminile dell’Odissea di Omero poiché Penelope – non diversamente dagli altri personaggi femminili che Odisseo incontra nel corso del viaggio di ritorno a Itaca – è stata sempre raccontata da un’unica voce, quella maschile. 
“Spogliata” del paradigma di moglie devota, Penelope, che si trova nell’Ade (il buio di questo luogo è scenicamente rappresentato dalla sola luce delle candele che di tanto in tanto l’attrice tiene tra le mani), racconta da defunta tutti i passaggi della sua vita (dall’infanzia al matrimonio con Odisseo, dall’allontanamento di lui a causa della guerra di Troia costatole una lunga attesa, al ritorno in patria) nonché la sua verità: «Ora che tutti hanno parlato a perdifiato, è giunto il mio turno […] qui ci sono solo ombre, echi. Tesserò, dunque, la mia tela». La principessa di Sparta, figlia di Icario, divenuta moglie di Odisseo dopo essere stata messa all’asta (era usanza presso gli antichi greci indire una gara per scegliere chi avrebbe sposato una donna di nobile nascita; il vincitore avrebbe ottenuto in premio la donna e il matrimonio) vuole riscattare – almeno a parole – l’impiccagione delle sue dodici ancelle, uccise per volere di Odisseo e per mano del figlio Telemaco a causa della loro presunta infedeltà consumatisi durante l’assenza del re. Quelle stesse ancelle – che a mo’ di coro inframezzano il lunghissimo monologo di Penelope – recitano diverse filastrocche sulla loro triste vicenda; la scelta registica è innovativa e singolare: le “sagome” prendono vita da uno schermo che è posizionato dietro lo spazio scenico e fanno da eco alla voce principale (Elena Finessi) che, danzando e cantando, si scaglia contro Odisseo: «Siamo le ancelle, ci hai condannate, ci hai ammazzate, nell’aria appese […] regine, dee o prostitute tutte le hai godute» oppure, simulando un tip-tap: «Tip-tap, morte alle ancelle! Tip-tap, ahi, che puttanelle! Tip-tap, morte alle schiave! Tip-tap, appese all’architrave. Impiccatele lassù e non se ne parli più». La storia di Penelope corre parallelamente a quella delle schiave, della cui sorte la regina si sente parzialmente responsabile. Perché le storie di queste donne – vittime della società patriarcale del tempo nonostante il rango differente – possano ricongiungersi, è necessario che Penelope racconti ab origine il suo vissuto, da quando, cioè, dopo essere stata gettata da suo padre nel mare, era stata salvata da uno stormo di anatre, ragione per cui durante il corso della sua vita verrà sempre apostrofata da sua cugina Elena come anatroccola. L’evento traumatico vissuto in tenera età porterà la giovane spartana a desiderare l’allontanamento dalla città e dalla famiglia di origine. Pertanto, dopo essere stata consegnata al futuro marito «come un pacco di carne», comincia la sua “nuova” vita ad Itaca. Anche questa, racconta dal buio dell’Ade, non è stata affatto gioiosa: dopo aver subito quello che lucidamente chiama stupro autorizzato (avvenuto durante la prima notte di nozze), si rende conto di essere completamente sola, silenziosamente osteggiata dalla madre di lui, Anticlea e dalla nutrice, Euriclea, che con il pretesto che fosse “ancora una bambina” si impone sull’educazione della casa e del figlio Telemaco. L’allontanamento di Odisseo, dovuto all’imminente guerra contro i Troiani che i Greci combatteranno a causa di Elena, verso la quale la donna nutre odio profondo, la arena definitivamente in un dolore lungo e senza via di scampo, se non fosse per la presenza delle sue ancelle, la più cara delle quali è Melanto dalle belle gote. La competitività (di cui Penelope sulla scena non fa mistero) tra lei e sua cugina Elena, anch’essa pungolata dalla boria maschile per la quale alla intelligenza di una corrisponde la bellezza dell’altra e viceversa, è un elemento apparentemente secondario; in verità la “colpa” che Penelope rinfaccia ad Elena è quella di aver determinato la guerra, quindi la partenza di Odisseo che le costa una attesa lunghissima che cerca di arginare “alleandosi” con le ancelle. Quando, trascorsi diversi anni dalla fine della guerra di Troia, Anticlea muore («inaridita come fango secco, intossicata dalla lunga attesa, la madre di Odisseo era morta nella convinzione che lui non sarebbe più tornato») e Laerte, padre di Odisseo, si ritira in campagna, Penelope si occupa con indubbia maestria dell’amministrazione del palazzo, sperando che il giorno in cui fosse tornato, Odisseo le avrebbe detto «vali mille Elene». Gli anni a seguire, contrassegnati dall’arrivo dei Proci, usurpatori del trono di Odisseo («prima erano 5, poi 10, poi 50») costringono la regina a un cambio di rotta: interessati alle sue immense ricchezze, chiedono incessantemente la sua mano e, non potendosene liberare se non acconsentendo a sposare uno di loro, la scaltra Penelope escogita un piano: unirsi in nozze con uno dei suoi pretendenti non appena avesse finito di tessere il sudario per suo suocero Laerte. Tuttavia di notte la donna, con la complicità delle sue dodici ancelle, disfa la tela cucita di giorno in modo che il lavoro resti sempre incompiuto e le nozze di continuo procrastinate. Esattamente in questo punto la storia della padrona si intreccia con quella delle sue ancelle: «Purtroppo un’ancella tradì il segreto di quel mio tessere senza fine. Sono sicura che accadde per errore: le ragazze sono spesso sventate […]. Se il mio segreto cessò di essere tale, a rigor di logica, fu solo per colpa mia. Avevo chiesto a dodici giovani ancelle di girellare intorno ai pretendenti e di spiarli, con tutte le lusinghe che riuscivano a escogitare; non avevo voluto dividere il mio segreto con Euriclea e mi accorsi poi di aver commesso un grave errore». La responsabilità per l’uccisione delle dodici donne nasce dalla consapevolezza di Penelope di averle spinte nelle braccia dei Proci che, scoperta la verità, dopo averle o sedotte o stuprate, mettono spalle al muro la regina stessa. Il ritorno, oramai insperato, di Odisseo ribalta la sorte di Penelope che, fingendo di non aver riconosciuto il marito nelle vesti di un vecchio mendicante («è sempre imprudente mettersi tra un uomo e la dimostrazione delle sue capacità», recita beffarda), escogita un altro stratagemma: indire una gara tra i Proci a cui partecipasse anche il vecchio mendico con il grande arco di Odisseo che consisteva nel lanciare una freccia attraverso gli anelli fissati sul manico di dodici scuri piantate in terra una in fila all’altra. L’impresa straordinaria, che solo il mendicante/Odisseo avrebbe potuto superare, garantisce pertanto la vittoria sui Proci e la loro uccisione da parte di Odisseo e di Telemaco. Dopodiché il rinnovato re di Itaca convoca la sua nutrice Euriclea affinché gli indichi le ancelle che erano state “infedeli”, ovvero che si erano unite ai Proci senza il suo permesso durante la sua lunga assenza. Costoro verranno impiccate. La notizia devasta Penelope che dovrà fingere ancora una volta per non subire una sorte parimenti truce. Il ritorno all’amore dei due sposi, suggellato infine dall’inganno del letto da parte di Penelope volto ad assicurarsi che quell’uomo arrivato da chissà dove fosse davvero Odisseo, si fonda sulla menzogna del “quieto vivere”: «Lui confessò di aver sentito molto la mia mancanza e che mi aveva desiderata anche quando era tra le braccia di una dea; io risposi che gli ero stata fedele fino a diventare noiosa […]. Eravamo – lo ammettevamo noi stessi – due esperti e spudorati bugiardi ormai da molto tempo».

Michela Embrìaco, Il canto di Penelope. Foto di Pierluigi Cattani Faggion


Dietro il “lieto fine”” che ha voluto raccontare (il presunto) Omero, si nasconde la complessità della voce femminile. Penelope, arguta nella sofferenza, silenziosamente beffarda verso gli uomini che l’hanno vinta o che credono di averla vinta (da Icario ad Odisseo ai pretendenti), resta fedele non ad Odisseo, ma ad una sé stessa che non è mai stata portata così sagacemente alla luce come dalla penna di Margaret Atwood e rappresentata con una tale intensità come quella di Michela Embrìaco. Alla menzogna su cui si fonda il matrimonio tra Penelope e Odisseo, fa da contraltare l’intesa tra la regina e le sue ancelle che l’hanno ascoltata e spalleggiata fino al presunto tradimento di una di loro (l’ipotesi non del tutto implausibile è che Euriclea, invidiosa del rapporto tra Penelope e le sue dodici schiave, abbia forse scoperto l’inganno del sudario). Se in vita non è stato possibile riscattare la propria condizione, rinnegarla nell’Ade diventa l’unico modo per poter ottenere giustizia: le ancelle morte tormenteranno il vivo Odisseo e si accommiatano dal pubblico recitando tronfie: «Ehilà! Signor Nessuno! Signor Senzanome! Anche noi siamo quaggiù, le innominate. Le ragazze dalle belle gote, le serve procaci, quelle che vanno in giro dimenando il sedere, quelle che si inginocchiano a grattare il sangue da terra […], così ti è toccato averci sempre intorno: nella vita, dopo la vita, in tutte le altre tue vite». Rileggere l’antico secondo questa chiave di lettura e tornare a riempire le sale contribuendo alla lotta alla parità di un genere storicamente azzittito e vessato è un dovere morale: Multiversoteatro è in tal senso un esempio da seguire.

[Immagine di copertina: Il canto di Penelope. Foto di Pierluigi Cattani Faggion]

 

 



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