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“Vite di Ginius”, la memoria come redenzione: intervista a Max Mazzotta in scena a Roma il 17 gennaio

Alessandro Fiorenza

Un viaggio di purificazione, di redenzione e di consapevolezza, che l’Anima protagonista compie ripercorrendo, e ricordando, gli eventi più significativi, dolorosi e segnanti della vite che ha vissuto, tra tempi, ambientazioni, e dimensioni che viaggiano dall’onirico alla realtà del quotidiano, e tra linguaggi, registri, dialetti e ritmi diversi. Con Vite di Ginius – in cartellone alla Sala Umberto di Roma lunedì 17 gennaioMax Mazzotta porta in scena una pièce che si preannuncia di grande impatto. Lo spettacolo interseca infatti diversi linguaggi – dal corpo alla musica al video – e il lavoro di scrittura drammaturgica si fonde con una lingua di per sé musicale, ritmica e onirica come il viaggio che l’anima si trova a compiere.

Di nuovo in teatro dopo il successo al cinema nel ruolo del Gobbo partigiano nell’acclamato Freaks Out di Gabriele Mainetti, e già noto al grande pubblico per ruoli come l’iconico Enrico Fiabeschi di Paz! (2002), Mazzotta, che è stato uno degli ultimi allievi e collaboratori di Giorgio Strehler, è fondatore e direttore artistico di Libero Teatro, compagnia attiva da vent’anni in Calabria. Vite di Ginius è il primo monologo da lui scritto, diretto ed interpretato per Libero Teatro. Della sua ricerca linguistica, dell’indagine sulla coscienza e sulla memoria, e delle differenze tra teatro e cinema, abbiamo parlato con lui in questa intervista.

 

Vite di Ginius attraversa diversi stili e registri linguistici. Nel corso della narrazione, il testo affronta la ritmica dantesca dei versi in terzine a rima alternata, per poi passare alla prosa nelle sequenze di racconto, sequenze che alternano tempi e linguaggi differenti, e che sembrano salire, salire partendo dal più antico dialetto calabrese dell’800, fino a raggiungere un ibrido comunicativo immaginario e futuristico, nell’ultima sequenza, passando attraverso il romanesco degli anni ’60 e l’italiano della lingua parlata, moderna, quella dei tempi correnti. Un linguaggio che non viene dunque solamente utilizzato come mezzo di comunicazione, come strumento per restituire allo spettatore il racconto di quanto avviene in scena, ma è parte integrante della scena stessa, insieme storia e messaggio. A cosa è dovuta la scelta di utilizzare una così ampia variazione di linguaggi? E come si è svolto, in fase di scrittura dell’opera, il lavoro di ricerca e limatura linguistica?

Ho avuto l’esigenza di raccontare due dimensioni ben precise, una ultraterrena, completamente eterea, di fantasia visionaria, e una dimensione invece reale, ovvero della realtà. Perché Vite di Ginius racconta la storia di un’anima che compie un viaggio ultraterreno, di purificazione, e che passa attraverso vari stadi della materia. Diventa spazio, tempo, vibrazione, fino a quando si purifica completamente di qualsiasi componente materica, e arriva infine a ripercorrere le vite vissute nella realtà, e quindi a vivere la seconda dimensione, quella della vita quotidiana. Le due dimensioni nel testo si separano tra poesia e prosa: il viaggio dell’anima è descritto in versi, perché la poesia, la parola metaforica, allegorica, quella che è significato ma soprattutto suono consente di raccontare l’irraccontabile, l’inspiegabile, ciò che irraggiungibile attraverso la prosa e solo un linguaggio metaforico può restituire. La poesia è molto più immediata della prosa: ricordo, ad esempio, il piccolo paese dove sono nato e cresciuto, e dove spesso mi sono trovato a discutere con gli anziani del posto, che usano pochissime parole per dirti qualcosa di profondo e di grande. Diciamo quindi che, in fase di scrittura, l’uso della poesia ha risposto a un’esigenza insieme tecnica e istintiva. Dopodiché c’è il teatro. Il teatro mi dà la possibilità di lavorare su linguaggi e suoni differenti, anche perché noi siamo una moltitudine di linguaggi e di suoni.

E volendo dunque raccontare l’uomo, l’umanità, quello che si nasconde dentro, fuori, intorno, in fase di scrittura è emersa l’esigenza di usare linguaggi che siano al tempo stesso diversi ma capaci di arrivare a tutti, perché la sfida è stata quella di costruire uno spettacolo pop, inteso come un’opera che possa arrivare a tutti, nonostante usi un linguaggio e affronti una tematica che può sembrare un po’ ostica. E in questo senso la scrittura in versi ha avuto un ruolo fondamentale (terzine dantesche, canti di tre versi, altri canti di quattro versi, sempre in rime alternate) mi hanno dato l’opportunità di dare un ritmo e una musicalità al significato delle parole: ed è quella stessa musicalità che ha finito per dare un significato alle parole. Ha consegnato loro l’”intenzione”. È il teatro che funziona così. Non è una lettura, l’attore sottolinea da un lato e lascia andare da un altro, perché nel testo non deve, e non deve mai, avere tutto la stessa importanza. È come fare il surf sulle onde: quando arrivano non sono tutte uguali. Così come i versi che ho utilizzato hanno metriche diverse. Si alternano versi di dodici sillabe ad altri di sole quattro sillabe, perché il ritmo cambia a seconda del messaggio. In altre parole, è come scrivere una partitura musicale, e quindi scegli i tempi, le note e le pause per far sì che arrivi quel suono ultimo, finale. Le onde sono diverse così come lo sono i versi, ma se li cavalchi nel modo giusto, quello che deve arrivare al pubblico arriva.

L’anima protagonista dell’opera, poi, arriva a ripercorrere le vite che ha vissuto, ed in queste sequenze ho scelto la prosa e un linguaggio quotidiano per far sì che il pubblico possa immedesimarsi. Prosa che cambia, perché l’anima attraversa quattro vite diverse, e dunque parla quattro forme di lingua quotidiana diverse: il dialetto calabrese del XIX secolo, il romanesco degli anni ‘60, l’italiano corrente, e poi, per l’ultima sequenza, ambientata in un futuro molto lontano, ho lavorato su una lingua di fantasia che fosse comprensibile. Per costruire questo ultimo linguaggio mi sono basato su alcuni schemi, su certi modi di parlare, su certi verbi, su certi aggettivi, che ho scelto di reiterare, mentre su altri modi di parlare, su altre parole, ho usato la fantasia cercando i suoni adatti: per esempio, invece di “ragazza”, nel testo si usa “giovinicia”, a cui sono arrivato per associazione mentale, lavorando su suoni che pian piano mi hanno portato a costruire un linguaggio, poi smussato e reso più chiaro e comprensibile. Alla fine è uscito un linguaggio particolare e divertente, che mi sono divertito a scrivere: è stata una vera avventura di fantasia, per me.

In Vite di Ginius, il tema portante appare essere quello della memoria. Una memoria che non è mero ricordo, ma carnale, carnalissimo rivivere episodi ed eventi tra i più significativi e segnanti delle vite attraversate dall’anima protagonista dell’opera. Memoria il cui esercizio diventa un ri-vivere, ogni volta come fosse la prima, le emozioni, le sensazioni, il dolore, delle vite attraversate, delle conseguenze delle scelte fatte, del male subito e di quello arrecato. “Tanto male che mi strazia”, arriva a dire in scena lo stesso Ginius. Ma non si tratta di un percorso senza redenzione, senza speranza, semmai il contrario. E dunque, cos’è la memoria, e a cosa serve, se l’effetto che produce è quello di rinnovare il dolore, che nella vita si cerca costantemente di evitare?

La memoria è una bella bestia, ma penso che ci siano tanti tipi di memorie. Ci sono alcune cose che il nostro subconscio rimuove e non ci dà la possibilità di ricordare. Si tratta di una forma di autodifesa: per poter vivere, si deve dimenticare. D’altra parte, c’è anche una memoria che fa parte della coscienza, una memoria emotiva che è legata ad una parte recondita del nostro essere e che al tempo stesso non è solo individuale, ma si allarga – come nel caso di Ginius – a tante altre vite che possono essere considerate anche come una vita sola. Ci sono tanti “altri” dentro di noi, che vivono una sola vita. Le persone che conosciamo, i nostri amici, i nostri compagni di viaggio siamo anche noi, siamo anche l’altro, noi siamo anche l’altro e non possiamo essere soltanto noi. Solo che ce ne dimentichiamo. E in alcune situazioni della nostra vita, quando siamo vittime, ad esempio, dimentichiamo di essere stati carnefici, e viceversa dimentichiamo di essere stati vittime quando siamo carnefici. Questa dimenticanza fa sì che l’essere umano sia brutale: se ricordassimo non potremmo essere più né vittime né carnefici. Ma l’uomo continua a perpetuare questa dinamica. In questo senso, la memoria di Ginius è la memoria di tante vite. Una memoria che serve.

Foto di Guglielmo Verrienti – Ag Cubo, Campania Teatro Festival

Le vite dell’opera sono quattro. L’anima ricorda e vive nello stesso tempo quello che ricorda. In scena, difatti, sono uno solo, uno che però poi si sdoppia, in una voce che accompagna l’anima e in tutti gli altri personaggi. L’anima ricorda le sue incapacità di agire in alcuni momenti della vita. E si tratta di una vera e propria escalation. Nella prima vita ricordata, la protagonista Za’ Popa ha un amichetto, che per un gioco stupido, quando sono bambini, lei spinge e fa cadere in un pozzo. La donna si sente colpevole della morte del ragazzino, per paura non ha chiamato aiuto, e il ragazzino non è stato salvato. Può capitare a chiunque di pensare che se ci fossimo stati noi avremmo agito diversamente, ma poi trovarcisi davvero in una situazione simile e per paura comportarsi come non ci saremmo mai aspettati. Ecco, è quando ci troviamo in momenti decisivi della nostra vita, e ci ricordiamo di quei momenti, che viene fuori quello che siamo. Il momento del ricordare è un momento di crescita totale, fondamentale. La seconda vita che Ginius ricorda rappresenta il secondo grado di quest’escalation: il protagonista Nanni si innamora di una ragazzina che va a comprare le scarpe nel suo negozio: il fratello della giovane, geloso e conosciuto per essere un uomo violento e attaccabrighe, minaccia però il protagonista, e una sera, quando la ragazzina chiede aiuto al protagonista, lui glielo rifiuta perché ha paura del fratello. La notte stessa il bullo uccide la ragazzina. La vita di Nanni poi va avanti, si mette alle spalle il fatto, ma l’anima ricorda. Ricorda e si interroga. Si interroga su cos’è l’amore e cosa significa amare, a questo punto. Non riesce a capirlo. E così si trova a rivivere la terza situazione, nella quale rivive la vita di un uomo, Gianni, che rinchiude il fratello in manicomio, un fratello che lo accusa della morte dei genitori, scomparsi in un incidente stradale dal quale solo Gianni si era salvato. I due fratelli litigano molto duramente, e Gianni diventa un Caino che uccide il fratello, un gesto estremo che è il terzo grado dell’escalation dell’Anima di Ginius, che arrivata a quel punto non riconosce se stessa e si chiede come abbia potuto compiere un atto così estremo. A quel punto c’è Ginius, cioè l’ultima reincarnazione, in un mondo futuro nel quale non esistono più religioni, non esistono più misticismo e anima, ma esiste solo il concetto di intelligenza, di cervello, di rigida materialità. In questo mondo così assurdo, però, esistono sovversivi, persone – pochissime in realtà – che invece credono ancora nell’anima, credono che ci siano delle forze soprannaturali, altre, invisibili, energie che regolano alcuni meccanismi della vita umana e che ancora resistono. Lui cattura una giovinicia, appunto, una ragazza, che poi è sempre lo stesso doppio che si trova di fronte nelle altre vite (il bambino per la vecchia, la ragazzina per il venditore di scarpe, il fratello per Gianni). È sempre il doppio che ti si presenta davanti, è sempre la situazione che ti dà l’opportunità di amare e di far uscire fuori quello che sei e che invece puntualmente non esce. E sarà proprio l’incontro con questo doppio che permetterà a Ginius di compiere l’ultimo salto del suo percorso, e di riconciliarsi con la memoria della sua coscienza.

Foto di Guglielmo Verrienti – Ag Cubo, Campania Teatro Festival

Restiamo sulla memoria. Vite di Ginius è un’opera che utilizza la grammatica teatrale per svolgere una vera e propria indagine sulla memoria. In un contesto come quello attuale, nel quale grazie alla tecnologia abbiamo facile e rapidissimo accesso ad un’infinita quantità di informazioni, che non occorre più tenere nella nostra memoria, appunto, e in cui inoltre possiamo archiviare e immagazzinare tutte le immagini, foto e video che vogliamo, senza necessità di fissare nelle nostre teste i momenti che abbiamo vissuto, è ancora importante esercitare, allenare, lavorare sulla memoria? Come cambia il suo ruolo, secondo te? E in che modo il teatro può portare avanti lo studio della memoria, l’indagine di cui Vite di Ginius è parte, e con quale obiettivo?

Il teatro è il luogo deputato all’indagine sulla memoria. Perché il teatro è la vita. L’universo ci ha regalato la possibilità di specchiarci nel teatro: il pubblico si specchia nel teatro, e più nel teatro che in qualsiasi altro media, anche più che nel cinema. Cinema e teatro sono due modi di fare arte completamente diversi: il cinema può sembrare la fedele riproduzione della realtà, perché ci porta nei luoghi che noi conosciamo, riprende oggetti, spazi, linguaggi che viviamo e conosciamo, ma rimane lì, fermo, immobile, per quello che è, e le scelte che vengono fatte nella realizzazione di un film, una volta finito di girare, non si possono più cambiare, restano le stesse, con il pubblico che per quanto coinvolto resta distante, nel senso che il rapporto tra pubblico e la storia raccontata nel film è sempre filtrata dallo schermo. Nel teatro no: il teatro descrive la vita, e al contempo si agisce nella vita nel momento in cui si agisce nel teatro, perché la scena è sempre dal vivo. E si alimenta dell’energia degli spettatori che sono lì in quel momento, che è vivo e respira, e il pubblico a sua volta si nutre di quello che avviene in scena. È un continuo scambio, che comporta un cambiamento, anche se le scene sono sempre le stesse. Cambiano ogni volta che si va in scena, sera dopo sera come nella vita reale: i gesti che facciamo tutti i giorni, la nostra vita quotidiana, anche se in alcuni momenti ci può sembrare monotona, in realtà non lo è, perché non è mai la stessa, perché succede sempre qualcosa di diverso, qualcosa che ci sorprende o potrebbe sorprenderci, che noi notiamo oppure no. Ecco, il teatro è sempre così. Mentre della nostra vita possiamo conoscere solo l’azione che compiamo giorno per giorno e il nostro passato (o almeno quello che ricordiamo), ma non possiamo conoscere con certezza il futuro, e dunque improvvisiamo – d’altra parte, vita è un’improvvisazione continua – di un testo teatrale noi attori sappiamo tutto, come inizia e come finisce: possiamo, quindi, interpretandolo sul palco, dare ricchezza ai personaggi sapendo come va a finire. In altre parole, il teatro può dare tanto al pubblico, può portarlo a porsi domande fondamentali. Non so se il teatro può dare risposte, ma può porre domande che è giusto che ciascuno di noi si ponga. La funzione del teatro è intima, umana, ma anche sociale. Chi sale su un palcoscenico ha una responsabilità: è un privilegiato, perché può arrivare alle persone senza intermediazioni, come invece non accade nel cinema. Il teatro è un luogo necessario, anche se in fondo la vita è un gioco e lo è anche il teatro, e quindi il teatro è il luogo giusto per raccontare anche storie difficili, proprio per il suo lato giocoso: quello che ti permette di interpretare i ruoli della vita, l’elemento che lo rende il luogo più giusto per raccontare la vita.

Max Mazzotta nel film “Freaks Out” (2021), regia di Gabriele Mainetti

Nel recente Freaks Out di Gabriele Mainetti interpreti Il Gobbo, personaggio ispirato alla vera storia di Giuseppe Albano, noto come il “Gobbo del Quarticciolo”, giovanissimo partigiano di origini calabresi protagonista della resistenza romana durante l’occupazione nazista della Capitale dal settembre del 1943 al giugno del 1944. Com’è nata la collaborazione con Mainetti? E in particolare, qual è il lavoro che hai dovuto fare sul personaggio del Gobbo, per entrare nella parte e restituire un’interpretazione così forte e di grande impatto?

Il Gobbo è stata innanzitutto una bella sfida, per me e per Gabriele. Una sfida che abbiamo voluto affrontare assieme, facendoci un sacco di domande. Conosco Gabriele e il suo mondo visionario da tanto tempo. Del Gobbo è chiara l’origine calabrese, che doveva esserci, e infatti c’è. Abbiamo cercato però soprattutto di restituire un personaggio sopra le righe, fuori dagli schemi, e allo stesso tempo fatto di pura umanità. Anche il fatto di essere partigiano fa parte del suo personaggio, e lo distingue dai freaks protagonisti del film (che hanno superpoteri, loro malgrado, ma non sono supereroi, hanno una diversità che dà delle possibilità in più rispetto alla “normalità”). E i partigiani che invece non hanno questo, posseggono delle loro capacità intrinseche, come il coraggio e la voglia di seguire un ideale, un obiettivo, qualcosa che li rende “super-umani”. Abbiamo quindi cercato di lavorare su questo doppio estremo: sul fatto che fosse sopra le righe, eccessivo, e sul fatto che fosse molto umano. Questa combinazione di elementi doveva avere un equilibrio, e il Gobbo è l’equilibrio di queste due forze. Per fare questi personaggi ci deve essere anche il gioco e il divertimento, perché altrimenti se prendiamo tutto sul serio non siamo nella vita, perché nella vita non si prende tutto sul serio, anche le cose seriose cerchiamo di sdrammatizzarle, mentre cerchiamo di difenderci sorridendo della tragicità. Sorridiamo di fatti che non sono proprio così simpatici. Per esempio sul set a me manca una mano e ho al posto della mano un fucile, a un altro manca un occhio, eppure sul set ho conosciuto persone che davvero non avevano una mano ma le vedevi sorridere, ridere e scherzare tranquille sulla loro tragedia, perché quello è lo spirito giusto, la forza di questi personaggi. Se non prendiamo troppo sul serio la tragedia questa arriva meglio, perché il pubblico si rilassa e pensa di più; se invece gli buttiamo addosso la tragedia lo devastiamo e non capisce quello che deve capire.

E in ultimo, quanto deve al teatro, alla sua grammatica e alle sue opportunità, un film come Freaks Out che fa dell’ibridazione dei generi la propria cifra, e che mette il teatro stesso, o meglio, un teatro, quello dei Freak, dei “fenomeni da baraccone” appunto, al centro di una storia che ne fa luogo e strumento di salvezza, non solo individuale, ma anche collettiva?

Freaks Out deve molto al teatro perché il mondo è un teatro. Siamo tutti fatti di personaggi, d’altra parte, e, consentimelo, questo non lo scopre di certo Freaks Out. Pensiamo ad esempio a Fellini e al modo in cui usava la teatralità nei suoi film. Un personaggio è qualcosa in più di una persona in un luogo che è più di un luogo: questo significa teatralizzare. Significa amplificare. Anche se non sei un attore, se sali su un palcoscenico e dici una parola, questa viene amplificata, perché noi dal pubblico ti osserviamo e ti vediamo diverso, e tu sul palco diverso ci diventi davvero perché ci siamo noi ad osservarti. Il bisogno, perciò, di dover mettere su un palcoscenico è quello di creare una diversità tra chi osserva e chi viene osservato e quando crei questa diversità puoi dire delle cose (“teatrali”) che arrivano meglio rispetto a quando sei sullo stesso piano. Perché se tu dici delle cose in un bar sembrano discorsi da bar, se invece dici le stesse parole su un palcoscenico le percepisci diverse, hanno un’aura, un’amplificazione, e io come pubblico le recepisco, mentre in un modo normale non riesco a recepirle, perché mi passano senza un’attenzione. In quel caso noi “poniamo l’attenzione su”. Freaks Out ha usato il teatro, secondo me, per “porre l’attenzione su”, e la stessa cosa ha fatto Fellini, anche se in maniera diversa, che ha posto l’attenzione su dei personaggi, facendo pensare lo spettatore “diversamente”.

[Immagine di copertina: foto di Guglielmo Verrienti – Ag Cubo, Campania Teatro Festival]



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