Arti Performative

Leonardo Lidi // “Il Gabbiano”

Alessandro Fiorenza

«Niente è più attuale di Čechov». Così replica un anonimo sceneggiatore a René Ferretti in Boris – Il Film, quando il regista, impegnato a trovare qualcuno disponibile a scrivergli un copione in pochi giorni, gli dice di voler realizzare un film di stretta attualità. Il contesto è quello della satira sui tic autoreferenziali di un certo mondo intellettuale italiano, che gli autori della serie cult hanno saputo rappresentare come pochi altri, e tuttavia la modernità e l’aderenza all’attualità delle relazioni umane del grande drammaturgo russo emerge (quasi) ogni volta che un suo testo viene portato sul palco.

È il caso de Il Gabbiano che il Teatro Stabile dell’Umbria, in una produzione con Emilia Romagna Teatro e Teatro Stabile di Torino, ha messo in scena, per la regia Leonardo Lidi, al Teatro Vascello di Roma.. Il dramma in quattro atti, uno dei più noti e rappresentati tra quelli della vasta produzione di Anton Čechov, rappresenta la prima tappa di un progetto triennale che vedrà Lidi e la compagnia del TSU portare in scena altre due celebri opere dello stesso autore: Zio Vanja e Il Giardino dei ciliegi.

Foto di Gianluca Pantaleo

Ne Il Gabbiano Lidi riduce la scena all’essenziale: una panchetta illuminata sul proscenio, di fronte agli spettatori, e una lunga panchina di quinta, dove tornano a sedere tutti i personaggi quando non coinvolti dallo svolgimento della vicenda. L’intero cast, dunque, resta sempre sul palco, quasi che i personaggi di Čechov assistessero alla pièce insieme al pubblico, e come il pubblico.

La scenografia, poi, lascia il palco scoperto, nudo agli occhi degli spettatori, che possono vederne lo scheletro, le pareti di mattoni sullo sfondo, i cavi e le corde che sorreggono strutture luci e impalcature. È teatro che si spoglia degli elementi di corredo e che utilizza, lavorando per sottrazione, gli strumenti della messa in scena eliminandoli dalla scena stessa. Le uniche concessioni sono i costumi, che contestualizzano l’ambientazione fine ottocentesca, insieme alle luci e ai piccoli cambi di scena a segnare il passaggio da un atto all’altro. In altre parole, ogni singola scelta, unita a ciascuna delle performance attoriali, concorre a far emergere potenza – e, per l’appunto, contemporaneità – del testo, della scrittura dei personaggi, dei dialoghi, della storia. E ne amplifica, senza scadere nella didascalia, la natura metateatrale.

E funziona. La modernità dell’opera cechoviana emerge con forza, nella disfunzionalità – cifra contemporanea nelle relazioni familiari – del rapporto tra la celebre attrice Arkadina (Francesca Mazza) e il figlio Konstantin (Christian La Rosa), che da un lato ricerca, senza successo, l’approvazione della madre (feroci le critiche che Arkadina riserva al suo dramma), mentre dall’altro vorrebbe salvarla, come un novello Amleto, dalla relazione con il famoso scrittore Trigorin (Massimiliano Speziani), a sua volta attratto da Nina (Giuliana Vigogna), attrice in erba che più che dall’arte sembra attratta da tutto ciò che vi sta intorno. Emerge nella scelta di MaŠa (Ilaria Falini), che pur amando non corrisposta Konstantin cede alla corte e sposa il maestro Medvedenko (Giordano Agrusta), l’unico tra i personaggi che, nella sua semplicità, sembra nutrire un sentimento autentico, non viziato dal fondo di narcisismo che appare come unico motore delle passioni di ciascuno. Ed emerge, nel finale, con la morte di Sorin, che si accascia sul palco ma non viene notato dagli altri, troppo impegnati ad attirare su di loro le attenzioni dell’oggetto del proprio amore.

La regia di Lidi e la qualità delle interpretazioni restituiscono una rappresentazione dinamica e tremendamente attuale, facendo leva sull’essenza nuda del teatro: la scrittura.

 

[Immagine di copertina: foto di Gianluca Pantaleo]



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