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“Ottobre 22” di Sergio Pierattini e Renato Sarti: “processo” ai complici della Marcia su Roma

Alessandro Fiorenza

La scena è scarna, sullo sfondo un pesante drappo scuro si frappone a una tela bianca, mentre sul proscenio un uomo dai baffi a manubrio (Renato Sarti), in vestaglia da notte, seduto e legato alla sedia con una benda a coprirgli gli occhi, ha una pistola puntata alla tempia retta da un uomo più giovane (Fabio Zulli). Siamo nell’agosto del 1924, a due anni dalla Marcia su Roma che ha permesso a Mussolini di conquistare il potere, e due mesi dopo la scomparsa di Giacomo Matteotti, capo dei Socialisti Unitari, che dopo aver pronunciato alla Camera lo storico discorso di denuncia sui brogli e sulle violenze con cui i fascisti avevano inquinato le elezioni di quell’anno, aveva detto ai suoi compagni «io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me».

Con Ottobre 22, il testo di Sergio Pierattini, che insieme a Sarti ne cura anche la regia, andato in scena in anteprima nazionale nell’ambito del Romaeuropa Festival, il Teatro della Cooperativa milanese torna al Teatro Vascello a vent’anni di distanza dall’ultima volta, quando alla vigilia del 25 aprile del 2002 un gruppo di militanti della destra romana, capitanati da dirigenti che avrebbero poi fatto carriera fino al parlamento nazionale, tentarono di impedirgli di andare in scena con il monologo Mai morti, ispirato alle gesta della X MAS. Un episodio dalle evidenti, quanto inquietanti, connessioni con l’argomento della pièce che vediamo invece rappresentata oggi, nel 2022.

L’uomo legato, apprendiamo quasi subito, è Luigi Facta, avvocato piemontese e parlamentare di stretta osservanza giolittiana, una figura politica minore e mediocre dell’Italia di primo Novecento, che per un incidente della Storia si ritrovò a ricoprire il ruolo di Capo del Governo proprio nel momento fatidico dell’insurrezione fascista, l’inizio della dittatura ventennale sfociata nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

Il più giovane, che gli punta contro l’arma e che lo osserva a lungo, in silenzio, mentre l’altro piagnucola giustificazioni, è un uomo qualunque, un passante di professione attore, rimasto privo di un braccio e rappresentate di quel popolo italiano “mutilato” della propria libertà venuto ora a chiederne il conto alla classe dirigente.

Il monologo iniziale del povero Facta, costretto in ceppi, introduce quello che, di fatto, è un processo alla politica dell’Italia di quel tempo. Un processo intentatogli direttamente dal popolo. “Come è stato possibile?” è la domanda che dal palcoscenico risuona a cento anni esatti dalla Marcia su Roma, come è stato possibile che l’Italia Liberale si sia consegnata nelle mani del proprio carnefice, invece di reagire, invece di rispondere, invece di difendere quello Stato che diceva di rappresentare? È la rabbia armata dell’uomo dal braccio reciso, ma anche il cruccio del debole Facta, che da presidente del Consiglio dei Ministri, il 28 ottobre 1922, in quelle ore decisive, non riuscì a convincere il Re Vittorio Emanuele III a firmare lo Stato d’Assedio, atto che avrebbe autorizzato l’esercito a respingere l’avanzata delle camicie nere.

Si potevano fermare, i fascisti, nell’ottobre del ’22? No, conclude Facta, autoassolvendosi. Lo Stato era debole, il “biennio rosso” (le rivolte contadine e operaie che avevano portato all’occupazione dei latifondi e delle fabbriche nel 1919 e nel 1920) aveva terrorizzato gli industriali, l’esercito e la corona, i quali vedevano in Mussolini e nelle sue squadracce l’unico baluardo eretto a difesa delle loro posizioni di rendita. I liberali stessi mantenevano la convinzione che il fascismo si potesse blandire e poi riassorbire nell’alveo della larga legalità borghese di allora. Nessuno voleva veramente opporsi all’avanzata del “figlio del fabbro”. E ormai era troppo tardi.

Il dialogo tra i due, tra l’accusatore e l’accusato, si dipana in un crescendo che ricostruisce, senza sconti, la sequenza di fatti che permise a Mussolini di prendere il potere. Ma la rigorosa ricostruzione storiografica del testo, scritto con la consulenza dello storico Mimmo Franzinelli, non inficia quella che a conti fatti è la dimensione di ricordi personali, in qualche modo deformati dall’esigenza che i due insieme avvertono, quella di trovare una giustificazione. Per sé stessi, per le proprie responsabilità. Incluso l’uomo del popolo, che a ben vedere ne è tutt’altro che scevro.

Rispetto a ciò che vediamo in scena, il fascismo appare ed è già condannato sull’altare della Storia. Qui è il popolo che punta il dito contro la classe dirigente dell’Italia Liberale – corrotta, disprezzata, vilipesa – per allontanare da sé il senso di straniamento, e di colpa, provocato dall’aver subito la fascinazione dell’Uomo Forte, e per averne condiviso il giudizio “populista” sulla classe politica. E infatti il processo gira a vuoto.

Chi ha strappato il braccio al popolo? I fascisti, certo, ma chi sono i mandanti morali? Un governo borghese debole e inconcludente, incapace di colmare il solco che si era scavato tra le istituzioni statutarie e le classi sociali più numerose e deboli e che per viltà, quieto vivere e un tragico errore di calcolo ha finito per assecondare l’insurrezione fascista (e finire, poi, comodamente seduto nelle istituzioni fascistizzate)? O il popolo stesso, che ha consapevolmente scelto di rinunciare alla propria libertà in cambio di ordine e sicurezza? Che ha svenduto l’istanza primaria che ne aveva fondato l’irruzione sulla scena politica del 1919 – l’anno dell’affermazione elettorale dei cosiddetti partiti di massa – e cioè la richiesta di emancipazione e di partecipazione ai processi decisionali, per, letteralmente, un tozzo di pane? Del resto, non è lo stesso attore a raccontare come il lattaio, il panettiere e persino il suo capo comico fossero d’accordo con il giudizio sprezzante che i fascisti davano dell’Italia giolittiana? Non era, il giovane, capitato in mezzo ai fascisti di proposito?

Più che come è stato possibile, occorrerebbe forse individuare i nomi di chi si è davvero opposto, chi ha fatto davvero il possibile per evitare che tutto ciò accadesse. In ben pochi potrebbero alzare la mano, e tra questi, oltre alla complice classe dirigente liberale, non figurano nemmeno coloro che puntavano il dito, o la pistola.

La messa in scena, semplice a fronte di un testo complesso e storicamente rigoroso, restituisce la tensione del tempo, e funziona soprattutto alla luce del finale privo di climax, perfettamente intonato al rassegnato compiacimento di un’alta società che a parole ripugnava la violenza fascista, ma che in fondo ne giustificava l’uso, a fronte del fine: la propria perpetua conservazione, sia pure sotto altre forme.

[Immagine di copertina: foto di Laila Pozzo]

 



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