Arti Performative Dialoghi

“Cani” o della solitudine delle relazioni. Intervista a Michele Bandini di Compagnia Bandini/Zoe

Alessandro Fiorenza

La luce diegetica che illumina dall’alto uno spicchio del volto dell’attore, una porta alle spalle, un panino stretto tra le mani, il tronco mozzato di un vecchio albero che appare sullo sfondo. Uno spazio scenico essenziale, intimo ma al contempo inspiegabilmente caldo, avvolgente. Ruvido, crudo e insieme confidenziale come la lingua, il dialetto folignate che i personaggi del dialogo interpretato, scritto e diretto da Michele Bandini usano per esprimersi. Cani. Primo Studio, della Compagnia Bandini/Zoe, per la consulenza drammaturgica/assistenza alla regia di Carolina Balucani e il disegno luci di Emiliano Austeri, è uno spettacolo che sorprende. Presentato il 10 e l’11 dicembre allo Spazio ZUT! di Foligno nell’ambito dell’Umbria Factory Festival 2021, è un monologo – o dialogo solitario – intimo, privato, personale e al tempo stesso straordinariamente collettivo, con una precisa connotazione linguistico-geografica eppure universale, capace di coinvolgere e di restituire la profondità imperfetta e la conflittualità istintiva, animalesca, delle relazioni familiari, e in particolare delle dinamiche che regolano la relazione tra un padre e un figlio. Un monologo a due voci che sale vorticosamente fino a restituire l’incomunicabilità relazionale quale cifra fondante del rapporto (cos’è, del resto la comunicazione, soprattutto nei rapporti a due che coinvolgono la sfera sentimentale, se non un fra-intendersi?), un rapporto di cui i due personaggi, tuttavia, non sembrano poter fare a meno. È il teatro che indaga la disfunzionalità delle relazioni contemporanee, la loro complessità, l’evoluzione e i cambiamenti della dimensione familiare? E perché la scelta di un registro linguistico così identificabile e circoscritto sul piano geografico? Quali scelte hanno guidato l’attore e regista nella stesura e nella messa in scena di questo lavoro? Lo abbiamo chiesto all’autore e interprete.

Foto di Simone Telari

In Cani, il linguaggio, il folignate, svolge un ruolo fondamentale. È un dialetto e insieme un accento, una cadenza che non respinge ma anzi avvolge lo spettatore e restituisce, immediato, un senso di familiarità con quanto viene raccontato. Legato al tema dell’opera, è veicolo e parte del messaggio. In questo senso, la scrittura rimanda ad altre opere letterarie, come i romanzi di Andrea Camilleri, nelle quali il linguaggio è costruito mescolando elementi del dialetto, della cosiddetta lingua “parlata”, ad altri di un italiano più convenzionale, in un lavoro di ricerca che porta alla creazione di una lingua in effetti nuova ma incredibilmente “tipica”, elemento identificativo dell’ambientazione e della storia che viene raccontata. A cosa è dovuta la scelta della lingua, in Cani? Su cosa si è basato, nella fase di redazione del testo, il lavoro di ricerca linguistica?

Il linguaggio svolge una funzione primaria in questo lavoro, in quanto codice emotivo ed espressivo che esprime e rimanda ad una radice. Una radice che nutre e alimenta l’immaginario su cui si è costruito il progetto.  Quando ho iniziato a lavorare alla stesura del testo, nella prima versione distante anni luce dall’attuale, ho sentito ad un certo punto l’urgenza di “sporcare” il linguaggio. Le figure su cui stavo lavorando chiedevano una lingua ruvida, aspra, ma anche a tratti comica, grottesca, nonché estremamente violenta. Aggettivi questi molto calzanti al dialetto folignate che ho utilizzato, un dialetto epurato e semplificato per quanto riguarda alcuni termini perché tenevo alla comprensibilità dei dialoghi. Così facendo credo che il folignate possa assumere sfumature che passano dal lirico al popolare, colorando la scena con un ampio spettro di sonorità e musicalità. La scoperta del dialetto nel mio lavoro scenico è avvenuta proprio all’inizio quando lavoravamo con ZoeTeatro, con Emiliano Pergolari e proprio grazie ad un input di Marco Martinelli. Negli ultimi miei lavori invece ho lavorato con l’italiano, curando in modo particolare la dizione della parola italiana, con la precisa volontà di sperimentare, come autore e attore, le potenzialità dell’italiano. In Cani in particolare il dialetto è arrivato come necessità drammaturgica e scenica, come “lingua madre” che diventa, giocando con le parole, “lingua padre” con cui poter far parlare queste due presenze terrigne. La lingua inoltre diventa un’opportunità di ricerca e sperimentazione oltre che per l’aspetto drammaturgico anche per ciò che riguarda la ricerca in campo attoriale, in particolare quello legato all’uso della voce e della parola scenica che mi è molto caro, viste le potenzialità timbriche e i registri che è possibile utilizzare con questo diverso tipo di sonorità e articolazione fonatoria. Le relazioni estetiche tra lingua/voce e scena, tra linguaggi e immaginario, tra scrittura e ricerca attoriale, nonché gli esiti della sperimentazione attorno a questi elementi in dialogo sono alla base del mio percorso artistico.

Foto di Simone Telari

Monologo, o meglio dialogo solitario, la scrittura di Cani, la sua messa in scena, la regia, l’interpretazione, il ritmo, tutto concorre a rappresentare un rapporto familiare e affettivo certamente a due, e però da una prospettiva intima e personale. L’idea stessa di un’unica voce che interpreta le parole di entrambi personaggi, senza tuttavia cambiare mai tono o registro linguistico, restituisce questo punto di vista unico e privato della vicenda che viene messa in scena. Quanto di autobiografico c’è in Cani? Quanto dell’esperienza di vita di Michele Bandini ha influenzato la realizzazione dell’opera?

In questo lavoro forse più che in altri c’è una forte componente autobiografica, non solo in alcuni contenuti, ma anche e soprattutto all’origine del pensiero e del desiderio di realizzare questo lavoro. Anagraficamente sono in un passaggio della mia vita in cui rivesto ancora per fortuna il doppio ruolo, evocato nello spettacolo, ovvero quello di figlio, ma anche quello di padre, e sperimentare questa doppia prospettiva mi ha posto di fronte ad una profonda riflessione sul rapporto padri-figli, padri in particolare, non genitori in generale, e questo mi ha messo davanti alla mia complessa relazione di figlio con mio padre ma anche alla bellissima relazione con le mie figlie in quanto padre. Una revisione da adulto di quello che è stato il tormentato rapporto con mio padre, ormai risolto e interiorizzato, e il mio ruolo di padre nella vita delle mie figlie. Cani è un lavoro sull’amore, sull’amore più profondo e complesso che ci sia forse, perché un amore che non si sceglie, che si subisce e che ci plasma, che plasma la nostra visione del mondo e degli altri. Un amore universale, per di più, condiviso da tutti noi che siamo figli. Ho scritto inventando delle situazioni e dei contesti, altri sono episodi anche forti che ho vissuto realmente e che echeggiano nella memoria, ma al di là dei contenuti personali specifici emerge una dimensione che penso possa riguardare ognuno di noi: quella relazione profonda e complessa con le figure che più ci hanno condizionati, formati e guidati nella fase più fragile e innocente della nostra esistenza… una relazione da cui ci separiamo gradualmente scegliendo quanto essere distanti o contrari, vicini o aderenti a quello che i nostri genitori hanno tentato di fare con noi o immaginato per noi… in questo scenario, e nel tipo di relazione a due che evoco in scena il rapporto uomo-cane assume per me un significato profondo perché metafora di quel rapporto di dipendenza emotiva di un figlio ferito nei confronti di un padre/padrone.

 

«Tutto un problema dev’esse». La cifra della relazione tra i due personaggi sembra essere una conflittualità irrisolvibile, istintiva e animale (i cani del titolo, per l’appunto), che tiene insieme la ricerca, il bisogno costante di contatto di una parte, e la reazione dura, respingente della controparte. E tuttavia questa non sembra l’unica chiave di lettura del rapporto. Cos’altro li lega?

Forse li lega un tentativo di relazione e una tragica impossibilità di comunione e comunicazione, una profonda diversità di anime e nature che cerca fenditure attraverso le quali incontrarsi, li lega forse anche l’immaginario naturale, il bosco, la natura, la montagna anche se vissuti con connotazioni diverse, da un lato lo scenario predatorio del padre, dall’altro quello contemplativo del figlio, li lega un calore domestico che per uno è tana e per l’altro è gabbia, li lega ancora forse un affetto e un amore incomunicabile e incomprensibile che può diventare violenza, umiliazione, gioco, tormento. Li lega un legame complicato, stratificato, pieno di riflessi, sfumature e ambiguità che rimandano ad una complessità che è quella delle relazioni padri-figli, in cui tutte le parole, i toni e i gesti assumono connotazioni e significati profondi.

 

Il teatro permette, forse più di altri medium, di esplorare, approfondire e mettere in scena la complessità e l’emotività dei rapporti umani. Qual è la strada che il teatro contemporaneo ha intrapreso per te? E di che cosa avrebbe bisogno, secondo te, il linguaggio teatrale, oggi, per sopravvivere al delicato momento storico?

Per me soprattutto in questo ultimo lavoro c’è stato un ritorno all’origine, da un lato il dialetto, dall’altro l’assenza di elementi esterni importanti come la voce microfonica e il sound design presente negli altri mie lavori. Una scelta di essenzialità drammaturgica e una pratica attoriale che va verso una ricerca di immediatezza nel rapporto con lo spettatore, senza psicologia o immedesimazione dal punto di vista attoriale, ma lavorando su un terreno che emotivamente possa essere comune con chi assiste in platea. Non a caso la scrittura è volutamente comprensibile e accessibile, nonostante il dialetto, ed è forte in alcuni tratti la componente grottesca e comica, nonostante i contenuti, i rimandi, affondino le radici in una complessità di temi che si muovono su costrutti e tematiche risultato di studi e ricerche in ambito filosofico e psicanalitico, perché credo che il teatro, per essere vitale, debba essere semplice e complesso al tempo stesso. In questa fase del mio percorso artistico credo fermamente che il teatro debba avere degli elementi di complessità e profondità, ma che questi elementi debbano poter essere compresi fin dalla superficie, senza con questo intendere di dover andare incontro alle aspettative del pubblico, giocando sugli stereotipi o operando degli ammiccamenti ruffiani, ma semmai l’esatto opposto, credendo fermamente nell’innocenza dello sguardo dello spettatore e nell’onestà della relazione teatrale quando funziona, cercando di spostare il terreno di incontro su un terreno che può essere impervio ma riconoscibile per lo spettatore. In questo mio lavoro la lingua sicuramente aiuta per la sua immediatezza ma temi e contenuti sono volutamente cercati in quella sfera di intimità che ci riguarda tutte e tutti, che ci mette in relazione con la nostra dimensione emotiva, intellettuale ma anche animale. Credo inoltre nell’essenzialità dell’azione e della scena, caricando il peso sull’attore, sul potere evocativo e visionario dell’attore, credo nel mistero che può celarsi dietro all’utilizzo altro di un oggetto semplice che diventa oggetto d’azione simbolico, credo nella concretezza del gesto e ancora credo in quel segno e senso che diventa ogni elemento della messa in scena qualora il tutto ricerchi, se non la verità, che non è concetto per noi uomini e donne, né tanto meno per i teatranti, quanto più un’autenticità d’intenti e di tormenti. Per rispondere alla domanda in modo diretto, quindi, direi che per sopravvivere il teatro debba semplicemente curarsi della propria essenza e potenza, ovvero, di essere un’arte dal vivo che prevede un incontro e una relazione che in potenza lega in profondità nella condivisione di un tempo e di uno spazio in un assoluto fuori dal tempo e dallo spazio. Penso che il teatro debba e possa confrontarsi con il presente e con il futuro attraverso quello che è necessario e utile alla scena e non il contrario. Credo che in scena il supporto della tecnologia sia utile per le possibilità che offre, per la creazione, la modificazione di scenari, di mondi e di linguaggi. In questo mio ultimo lavoro per esempio penso che sia utile l’uso dei microfoni e degli effetti, per le possibilità di amplificazione dello spazio e del tempo a cui rimandano, perché con il loro utilizzo la voce e lo spazio diventano luogo dell’altrove, della memoria, del ricordo e penso che siano funzionali e necessari alla scena. Ultimamente, invece, essendo anche curatore, mi capita di vedere tanto teatro, anche giovane, ma non solo, che si confronta con i nuovi linguaggi multimediali senza averne forse l’urgenza conoscitiva e di ricerca che invece penso sia alla base di una creazione. Mi capita di vedere tanto uso del video senza urgenza né consapevolezza, ma soprattutto tanto uso del microfono, cosa questa che mi trova sensibile. Spesso trovo nei nuovi lavori un uso del microfono che diventa abuso soprattutto nei casi in cui il microfono è mera amplificazione del volume della voce dell‘attore, neutralizzando così le possibilità dinamiche ed espressive del microfono stesso, o quando ancor peggio il microfono viene usato in modo violento ed esterno, urlandoci dentro come fosse un megafono, causando un allontanamento nello spettatore che si trova investito piuttosto che accolto nella dimensione teatrale. Per me quindi il teatro deve tornare ad essere relazione e possibilità di ricerca sui linguaggi, siano essi linguistici o visivi o sonori/musicali, attraverso un’essenzialità e un lavoro sinergico tra drammaturgia, regia e attorialità. Quindi in ultima istanza credo che i vecchi e i nuovi linguaggi debbano essere al servizio del misterioso operare e fare del teatro, ma assolutamente non il contrario.

 

[Immagine di copertina: foto di Simone Telari]



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