Arti Performative

“Traces”: Wim Vandekeybus e i suoi corpi all’estremo tra amore e paura

Roberta Leo

Traces è l’ultima produzione della compagnia fondata da Wim Vandekeybus a metà degli anni Ottanta Ultima Vez. Il coreografo fiammingo procede nel solco della sua ricerca iniziata all’epoca, proprio negli anni in cui era ancora forte lo stile della postmodern dance, che a partire dai primi anni ’60 andò via via alimentandosi delle danze verticali di Trisha Brown, della contact improvisation di Steve Paxton, dell’apoteosi del formalismo orchestico di Merce Cunningham e del minimalismo di Anne Teresa de Keersmaeker. Il coreografo fiammingo si inserisce in questa rosa di artisti e di avanguardie nel modo più trasgressivo e violento di tutti. Quando la sua compagnia debutta nel 1987 con What The Body Does Not Remember, Vandekeybus spinge il corpo all’estremo e ne indaga gli impulsi e gli istinti che inducono al movimento il corpo stesso. Il danzatore viene messo in condizioni di pericolo per farne palesare riflessi e reazioni immediate in modo da ritrovare la causa prima e primitiva del movimento. Così, lanci di mattoni, corpi che rotolano dentro pneumatici di automobili, partiture coreografiche costruite sulla violenza di urti e impatti tra corpi, sfide continue dei danzatori contro la gravità, sono la summa di una particolare cifra stilistica che ha identificato negli anni il coreografo. E non importa se a muovere la creazione di quest’ultimo sia un’esperienza personale, un tema socio-politico o mitologico, una ricerca analitica sul movimento o sulla musica. Nelle sue opere si potrà sempre individuare un’antica energia vitale, una forza generatrice del moto comune a tutti gli esseri umani che però, un po’ come secondo la tradizione cristiana è accaduto con il peccato originale, tale forza viene dimenticata e soffocata da regole e dettami sociali.

Così, in Traces, la creazione andata in scena lo scorso ottobre nell’ambito del Festival di Danza Contemporanea 2021 programmato dal Teatro Comunale di Ferrara, Wim Vandekeybus, a distanza di oltre un trentennio dall’inizio della sua ricerca, continua a ripercorrere le tracce dell’uomo e della sua storia. In questo suo lavoro dieci danzatori si muovono su musica composta e registrata da Trixie Whitley, Shahzad Ismaily, Ben Perowsky e Daniel Mintseris. Vandekeybus riesce a tradurre queste tracce “umane” ritrovate per mezzo delle pulsazioni “rabbiose” della chitarra elettrica di Marc Ribot e attraverso la violenza della sua danza.

A integrare questa ricerca reiterata nel tempo vi sono i disastri ambientali, il disboscamento e il riscaldamento globale, la battaglia animalista e, più in generale, lo studio sulla natura che, attraverso vari elementi della scenografia e dei costumi, partecipa all’opera con supporti materiali che ben esplicitano questo pensiero di ricerca della memoria e della storia dell’uomo da cui è mosso il coreografo. Le pulsioni della natura umana sono fuse con quelle della natura esterna che lancia il suo grido d’aiuto introducendo nella danza, cassonetti incendiati, orsi inferociti, foreste che vengono rase al suolo. I danzatori eseguono cellule di movimento semplici ma di grande impatto corale per la forza e l’energia fisica che la loro esecuzione richiede. Schivano gli attacchi degli animali, gli incendi e i tronchi che rovinano violentemente, si muovono tra fuoco e rifiuti. Pochissimi duetti ricordano che nella deriva più totale continua a cercare di sopravvivere l’amore, l’altra grande forza motrice che, al pari della paura muove l’uomo (e il suo corpo) privandolo di ogni razionalità.

Così, la danza di Wim Vandekeybus resta, a distanza di oltre trent’anni, la danza dell’autoconservazione, la lotta di tutti contro tutti, una danza violenta che nasce dall’amore per sé stessi.



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