Arti Performative Focus

Hangartfest. La città di Pesaro volge lo sguardo alla danza contemporanea

Roberta Leo

Hangartfest è il festival di danza contemporanea diretto da Antonio Cioffi, che fino a domani, 16 settembre, anima i luoghi della città di Pesaro. Ormai giunto alla sua ventesima edizione, Hangartfest permette di coniugare musica e danza, arte e patrimonio storico-archeologico del territorio rivitalizzando la geografia urbana della città ‘della musica’, che già diede i natali a Giocchino Rossini (oltre al festival, altro punto nevralgico della cultura pesarese è l’omonimo Conservatorio con la sua antica tradizione musicale). Tra spettacoli, incontri, laboratori e installazioni performative, la programmazione di Hangartfest, proprio in virtù della sua ricchezza ed eterogeneità, è funzionale alla diffusione dell’offerta culturale della danza nazionale e internazionale, e stimola costantemente il dialogo tra tradizione e innovazione. Tale continuità rinnovata si pone come una premessa ottimale al viaggio verso il 2024, anno in cui Pesaro sarà Capitale Italiana della Cultura.

Ciò che spicca nel festival è sicuramente 1|2|3 SOLO DUET TRIO NUOVA DANZA ISRAELIANA, un piattaforma di sviluppo per giovani coreografi emergenti. Sei micro performance Fractal e Arba, Wabi Sabi e Oxytocin, Nitta, Give it to me, presentate rispettivamente dai coreografi Ophir Kunesch (prima solo e poi in duetto con Maya Navot), Tamir Golan (anche lui prima solo e poi con Gil Algarbeli), Reches Itzhaki e Auvshalom Latucha, tracciano i tratti distintivi della nuova danza israeliana, connotata da una profonda varietà e da un diverso sentire autoriale. Tra le giovani leve della coreografia d’Israele c’è chi si muove nel silenzio, su musiche tematiche o sul suono della propria voce, c’è chi con la propria danza racconta un viaggio, una storia d’amore, chi regala una comicità gradevole, ma anche chi, più introspettivo, usa il corpo per  una ricerca più profonda, connettendosi con la musica, con la natura, dialogando con una propria fragilità. Gli artisti israeliani presentano, tuttavia, come tratto comune una qualità di movimento ben diverso dalla tanto decantata, (peraltro vista e già vista) “goccia d’olio”. La fluidità dei loro corpi, ognuno differente dall’altro, assume un valore narrativo, abbandona quel flusso ininterrotto meravigliosamente tecnico tipico del nostro tempo per dare spazio a un flusso emotivo che a tratti scuote e a tratti ipnotizza. E forse sta proprio in questo la novità di una danza come questa, una danza che giunge da lontano e che vuole esplorare e forse ridisegnare fieramente le identità socio-politiche di una cultura eterogenea e complessa, come si evince dal successivo dialogo con Naomi Perlov, direttrice del Suzanne Dellal Centre for Dance and Theatre Tel Aviv.

Oltre ai giovani artisti israeliani tra i protagonisti di Hangartfest ci sono stati anche i giovani allievi del Liceo Coreutico G. Marconi di Pesaro che hanno portato in scena IN C-Progetto speciale studenti. IN C sulle note del celebre brano minimalista composto da Terry Riley è una performance di Sasha Waltz che l’assistente alla coreografia Michal Mualem ha trasmesso agli studenti del liceo coreutico, una realtà che da circa tre anni contribuisce alla diffusione della cultura coreutica nel capoluogo pesarese. Accompagnati dalla musica dal vivo dei bravissimi studenti del Conservatorio Statale di Musica G. Rossini di Pesaro i giovani tersicorei hanno dato prova di grandi capacità tecniche e di notevole sensibilità musicale nel riproporre un lavoro tanto complesso in cui convergono i principi del minimalismo americano della ripetizione e dell’accumulazione. IN C è dunque un tuffo nella storia della danza degli anni Ottanta; ricorda sicuramente la coreografia di Anne Teresa De Keersmaeker, Fase, Four Movements to the Music of Steve Reich, non tanto nella struttura dei quattro movimenti quanto nell’operazione meticolosa e matematica compiuta nella creazione del lavoro. I 53 temi musicali di IN C devono essere suonati in ordine ma ripetuti un numero di volte indefinito. A tanti temi musicali corrispondono altrettante frasi coreografiche che i danzatori scoprono per quante volte eseguire direttamente sulla scena. Si ha così uno spettacolo nuovo ogni volta, un’infinita moltiplicazione del tempo e dello spazio. Questi ultimi si correlano attraverso una precisa combinazione, anche se dettata dal caso, fatta di variazioni di accenti, pulsioni e intensità. Ogni corpo nel ripetere ossessivamente determinate cellule di movimento, aggiungendo o togliendo dettagli dinamici, diventa pertanto tale: accento, pulsione, intensità.

Non si può non includere sulla scia di questo binomio tra rinnovo e continuità la compagnia Zerogrammi con Elegia delle cose perdute. Questo nostalgico lavoro per il soggetto, la regia e la coreografia di Stefano Mazzotta, interpretato da Alessio Rundeddu, Amina Amici, Damien Camunez, Gabriel Beddoes, Manuel Martin, Miriam Cinieri e Riccardo Micheletti, mantiene viva e veste di luce nuova la tradizione del teatrodanza tedesco unitamente a una corporeità popolare, grottesca, riscrivendo il romanzo I poveri dello scrittore portoghese Raul Brandao. Movimenti accompagnati da braccia morbidissime dal sapore bauschano narrano il viaggio interiore di una famiglia esiliata dal proprio spazio e dal proprio tempo. Si susseguono quadri dalle tinte bucoliche che richiamano una vita ai margini, sospesa in una bolla. Il cortile della storica Biblioteca Oliveriana di Pesaro, suggestivo teatro a cielo aperto che ospita lo spettacolo, ben si presta a questa ‘transumanza’ dei personaggi che ridono, piangono, danzano alla ricerca di cose perdute, cercate e mai ritrovate: un numero, un nome, un oggetto, un amore lontano. La danza ancora una volta narra i sentimenti, l’inconscio, il non detto. Gesti piccoli e quotidiani assumono valenze chiarissime e, talvolta, vengono esasperati dalla voce degli interpreti, ridondano di un’antica memoria dal retrogusto agrodolce conservato anche dalle musiche: Grazie dei fiori di Nilla Pizzi, Ciao amore di Luigi Tenco, un malinconico e noto valzer di Shostakovic. Pur essendo un gesto intimo e minimale quello della compagnia Zerogrammi ha una cifra simbolica comunitaria che rende la sua danza democratica e di facile comprensione grazie anche alla bravura e all’esperienza dei suoi danzatori che, si può affermare con certezza, sono dei danzattori dal corpo forte e preparato ma che sa andare oltre la tecnica, che rende il gesto un segno, un linguaggio leggibile, figlio di una tradizione europea che Mazzotta ha il merito di far rivivere nella dimensione di un teatro popolare tutto italiano.



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