Arti Performative Dialoghi

“Trasparenze” sull’Appennino modenese: elogio della lentezza. Intervista a Stefano Tè

Roberta Leo

L’undicesima edizione di Trasparenze – progetto organizzato da Teatro dei Venti, Ater Fondazione, Koras, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna e il contributo Fondazione di Modena – dal 18 al 30 luglio è tornato ad abitare il borgo di Gombola, sull’Appennino modenese, con la sua programmazione multidisciplinare di teatro, danza, cinema e musica. Sono stati ospitati: Ramin Bahrami / Massimo Mercelli, Banda POPolare dell’Emilia Rossa, Bobo Rondelli, C&C Company, Cisco, Fabrizio Favale / Le Supplici, Flexus, Ginevra Di Marco Trio & Franco Arminio, JR e Alice Rohrwacher, Luca Mazzieri & Band, Nerval Teatro, Domenico Pizzulo / Humareels, Residui Teatro, Teatro dei Venti con abitanti del territorio, Zambra Mora, e gli artisti in residenza per il progetto Connessioni / Youz Officina, Gemma Hansson Carbone, Giovanni Onorato, Noemi Piva / Associazione Atacama.

Abbiamo incontrato il direttore artistico Stefano Tè per parlare a fondo delle scelte artistiche, del ruolo peculiare dello spettatore-residente e della ragion d’essere del festival, ossia, dell’importanza di riuscire a prendersi il proprio tempo in un momento storico frenetico e denso di troppe sovrapposizioni.

Stefano, alla luce dell’edizione appena trascorsa, quanto è cresciuto il festival Trasparenze?  

È cresciuto tantissimo, soprattutto per quanto concerne il rapporto col territorio e i suoi abitanti. Si è percepita tanto da parte di questi ultimi la volontà di aderire al festival e, in qualche modo, di prendersene cura. Si è creata, dunque, una relazione genuina e reale tra arte e comunità. Inoltre, il festival è cresciuto anche grazie al rapporto con ATER circa la programmazione e la creazione di nuovi circuiti artistici multidisciplinari. Insomma, stiamo crescendo tanto ma siamo anche preoccupati per il futuro dal momento che, se da un lato il festival cresce, dall’altro ha bisogno di spazio, di ossigeno. E in questo periodo notiamo che ci si scontra spesso contro la motivazione della mancanza di fondi a fronte di un’operazione culturale che funziona e necessita, pertanto, di essere rilanciata.

Foto di Chiara Ferrin

Trasparenze ribadisce ancora una volta il forte legame tra città e Appennino, comunità e territorio. Lo dimostra il nuovo lavoro della compagnia Teatro dei Venti Le opere e i giorni. Di cosa parla?

Anche quest’anno abbiamo affidato l’apertura del festival agli abitanti di questo territorio che partecipano durante l’anno alle nostre attività e laboratori, quindi, ad attori non professionisti. Con la poetessa Azzurra D’Agostino abbiamo immaginato di analizzare dei termini a loro cari come ‘abitare’, ‘accoglienza’, ‘casa’, per poi comprenderne il significato più intrinseco. Ci siamo posti interrogativi del tipo Cosa è casa?, Cosa vuol dire perdere la propria casa?. L’appennino subisce ogni anno uno spopolamento ma, al tempo stesso, si osserva anche un’inversione di tendenza, ossia la presenza di un flusso di giovani che lasciano la città e si trasferiscono qui. Il rapporto tra terra e famiglia e il fenomeno di vari nuclei che si spostano sono i temi principali che abbiamo trattato e che, con il fondamentale supporto di Azzurra, siamo riusciti a trasfigurare a livello poetico.

Hai parlato di casa, famiglia, territorio, comunità e sembra che Le opere e i giorni si sposi molto bene anche con il cortometraggio Omelia contadina ma anche con altri lavori che sono stati presentati al festival. Sembra che ci sia un raccordo tra le varie scelte artistiche basate su questo tema o sbaglio?

Assolutamente non sbagli. Tutte le scelte sono state influenzate da questa macro-tematica che ci accompagna durante l’anno. È tanto, infatti, che lavoriamo su ‘Abitare Utopie’ e questo ci ha condotto all’idea di inserire un’altra attività di residenza nel mezzo del festival. L’attività di programmazione viene infatti sospesa per lasciare uno spazio all’incontro tra artisti, organizzatori, spettatori, amministratori. Si tratta di persone che normalmente vengono coinvolte poco. Così, all’interno di ‘Abitare utopie’ abbiamo analizzato insieme anche ‘l’attraversare il vuoto’. Abbiamo fatto dei tavoli di lavoro, ospitando esperti esterni come medici, scultori, astrofisici, studiosi che non appartengono a questo mondo ma ci hanno dato spunti interessanti sul tema del ‘vuoto’. Siamo alla ricerca di qualcosa che non si può definire perché la stiamo ancora cercando e per farlo ci serviamo di parole chiave come ‘abitare’, ‘casa’, ‘territorio’, ‘natura’, ‘vuoto’.

Possiamo dire che Trasparenze ‘abita’ Gombola e che non è solo un festival ma anche svago, concerti e, soprattutto, incontri. In che modo lo spettatore diventa residente?

Abbiamo immaginato una partecipazione diversa, non prettamente turistica o di passaggio – anche perché è difficile passare di qua! (ride) – Direi che il nostro spettatore non transita ma più che altro sosta, non sovrappone ciò che incontra, si prende il tempo di godere dei luoghi, degli spettacoli, delle attività. E visto che le strutture non sono moltissime abbiamo chiesto agli abitanti di ospitare non gli artisti ma il pubblico. Forniamo agli spettatori una lista di persone disponibili che loro in autonomia contattano per accordarsi sull’ospitalità. Ci sembra un modo giusto per coinvolgere attivamente gli abitanti e favorire la creazione di nuove relazioni.

Trasparenze potrebbe essere un invito a prendersi il proprio tempo? O meglio, un monito fondamentale in questo momento storico per riconnettersi con una dimensione del sé (e di ciò che si abita, appunto) molto più profonda, un vero e proprio elogio della lentezza?

Esattamente. Il nostro obiettivo non è soddisfare il pubblico con l’abbondanza ma andare, piuttosto, controcorrente.

[Immagine di copertina: foto di Chiara Ferrin]



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