Cinema Il cine-occhio

Il processo ai Chicago 7

Stefano Valva

Il 2020 è stato ed è un anno esageratamente intenso (come se fosse uno del ‘900, un secolo che viene etichettato come il più mutevole della storia dell’umanità) per la miriade di avvenimenti che si sono succeduti: dal problema ambientale in Australia e in altre zone del mondo, alla pandemia per il Covid-19, fino alla sensibilizzazione sociale verso i casi di cronaca che hanno colpito la comunità di colore, aizzando il movimento Black Lives Matter.

Tale protesta sociale, che continua anche a livello mediatico in virtù delle imminenti elezioni presidenziali, rimembra il 1968, anno di ambientazione del nuovo film di Aaron Sorkin, mai banale nella scelta dei soggetti, in corrispondenza alla realtà odierna.

Pure in quel 1968 ci fu la rincorsa alla Casa Bianca, ed il passaggio di consegne (effettivo dal gennaio 1969) dal conservatore di matrice kennediana Lyndon Johnson all’ultra conservatore Richard Nixon, colui che pose fine alla parentesi di ribellione della comunità hippie.

Il processo ai Chicago 7 (oltre ad essere il titolo dell’opera dell’autore newyorkese), è un avvenimento cruciale, non solo a livello giudiziario, ma per l’intera storiografia americana. Tale evento i cinefili lo hanno spesso sentito di contorno in opere cinematografiche o in serie tv del genere period drama, o in documentari che ricostruiscono i processi culturali.

Sorkin ne dedica un’intera pellicola, e per un autore che ha scritto e diretto il biopic più anticonvenzionale degli ultimi anni – quello su Steve Jobs – ci si poteva aspettare che Il processo ai Chicago 7 non sarebbe stato né didascalico, né lineare, né dichiarativo, e nemmeno una mitizzazione dei protagonisti.

Le scelte dello sceneggiatore – prima che del regista – sono esemplificative del suo essere un esperto di caduta della grande narrazione: la rivolta nelle piazze di Chicago, dalla quale scaturisce il processo a 7 componenti dei movimenti sociali di protesta americani, l’autore la inserisce intrecciandola durante le sequenze del processo, e nel mezzo dei ricordi, che i personaggi riaffiorano del loro d-day, per una ricostruzione da indagine poliziesca, che parte dall’inconscio; il film inoltre, non diviene tout court un legal drama, i momenti in tribunale sono conditi da una finzione cinematografica manifesta, che accentua la mitologia dell’evento nell’immaginario della popolazione; infine, le inquadrature sono per lo più frenetiche, con campi contro campi continui ed un montaggio pieno di stacchi, con la presenza di piani sequenza in prevalenza durante le scene “giudiziarie”, così da coinvolgere il pubblico in uno spazio filmico tanto risicato, quanto cosparso di contenuti drammatici.

Sorkin non riesce a fossilizzarsi in una closed room “giudiziaria” in stile 12 Angry Men di Sidney Lumet, ma egli è un autore che ama la dinamicità dell’immagine e della macchina da presa, e cerca in tutti i modi anche in una narrazione di per sé statica di renderla per quanto più possibile dinamica, uscendo continuamente dal contesto filmico chiuso per esplorare i contorni, sia ambientali, sia psicanalitici.

Quindi ritorna l’intreccio, il rompicapo costituito anche in film precedenti come Molly’s Game o appunto nella sceneggiatura dello Steve Jobs di Danny Boyle (ove il biopic non è inteso come racconto, bensì come visione umanizzata del protagonista, attraverso momenti chiave della sua vita – in quel caso, durante le convention che il creatore della Apple tenne, per presentare le invenzioni rivoluzionarie nel mondo della telefonia e dell’informatica). Anche il processo ai Chicago 7 diviene un rompicapo, pur essendo un evento storiografico e del quale uno spettatore esperto potrebbe conoscerne i dettagli, l’epilogo e i lati oscuri. Nonostante ciò, l’opera ha un’intensità da noir, da thriller, che in un dato momento potrebbe lo stesso sfoderare un whodunit, come in un soggetto originale.

La pellicola non diviene semplicemente pubblicitaria, ossia uno slogan delle contro-culture, o un aizzare le folle approfittando del contesto storico contemporaneo americano, ove si vede di cattivo occhio l’operato delle istituzioni e della polizia (seppur lo spettatore, per forza di cose diviene un sostenitore dei personaggi, degli inetti accusati di essere coloro che frenano il processo di progressione), ma è invece anche un immergersi nella logica di svariate comunità in rapporto tra loro, perché ciò è l’essenza dell’America, dalle origini: la ricerca di un rapporto armonico tra svariate etnie, culture e civiltà. Inoltre è anche un grido alla speranza, al cambiamento, al non giudicare, all’analizzare il senso di abnegazione di porta-voci carismatici, coraggiosi, dalle ideologie radicate, determinati da tosti “sessantottini” a plasmare le coscienze del proprio paese, e a dare una sterzata al secolo delle guerre. In tale anno, in riferimento alla sanguinosa campagna militare in Vietnam.

Se il giudice (interpretato da Frank Langella) ha un’aura da villain dispotico, in quanto accusa – secondo canoni superficiali – gli imputati di avere uno spirito anarchico, che non può che comportare un blocco al processo di civilizzazione della moderna società americana, in realtà egli stesso è invece in profondità il freno a mano della macchina America, colui che condiziona – anche inconsciamente – le libertà individuali, di pensiero, e di parola degli uomini, essendo il rispecchio di un’altra faccia degli USA, tanto radicata, quanto preoccupante: quella del potere e del pregiudizio. E su questo, il film di Sorkin sensibilizza ancor di più un tema prettamente americano, basato sul concetto di libertà e di espressione del proprio essere, che è sia storico, sia ancora attuale.

Attraverso un cast corale, nel quale spiccano le interpretazioni del capo degli hippie Sacha Baron Cohen e di quello della classe media Eddie Redmayne, l’opera diviene interessante anche dal punto di vista scenico, iconografico, ove si accentua – estetizzandoli – il pathos dei dialoghi, degli scontri, dei dibattiti e della conoscenza tra i personaggi stessi, tanto simili nelle finalità, quanto diversi nell’essere.

Il processo ai Chicago 7 è uno spartito della storia americana, il quale implicitamente insegna che la storia non la fanno gli eventi in sé, bensì le persone, ossia i gruppi umani, che decidono di dare nuova linfa alle ideologie politiche e culturali. Un evento che raffigura a pieno, la ventata contraria delle giovani generazioni americane, che sono “nate psicologicamente nel 1960”, ed hanno incominciato un processo post quello giudiziario estenuante, che dura velatamente ancora oggi. Per il cambiamento, non occorrono solo le azioni, c’è bisogno della parola, essa crea e smuove gli animi, c’è bisogno di uomini carismatici, c’è bisogno del ricordo e della storiografia, perché il passato aiuta il presente a costruirsi un futuro, che i Chicago 7 potevano soltanto immaginare.


  • Diretto da: Aaron Sorkin
  • Prodotto da: Stuart M. Besser, Matt Jackson, Marc Platt, Tyler Thompson
  • Scritto da: Aaron Sorkin
  • Protagonisti: Yahya Abdul-Mateen II, Sacha Baron Cohen, Daniel Flaherty, Joseph Gordon-Levitt, Michael Keaton, Frank Langella, John Carroll Lynch, Eddie Redmayne, Noah Robbins, Mark Rylance, Alex Sharp, Jeremy Strong
  • Musiche di: Daniel Pemberton
  • Fotografia di: Phedon Papamichael
  • Montato da: Alan Baumgarten
  • Distribuito da: Netflix
  • Casa di Produzione: DreamWorks Pictures, Cross Creek Pictures, Alibaba Pictures, Marc Platt Productions, Amblin Partners
  • Data di uscita: 25/09/2020 (Netflix)
  • Durata: 130 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Inglese
  • Budget: 35 milioni di dollari

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