Arti Performative Focus

“Là”: Baro d’evel e la riflessione sul presente attraverso il di-segno poetico

Roberta Leo

Mai come in questo periodo ci sarebbe tanto bisogno di bellezza, sentimento e poesia.
Riesce perfettamente nell’intento, di restituire la bellezza intesa come senso estetico del corpo e dello spirito, la pluripremiata compagnia Baro d’evel, formata dal duo franco/catalano Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias. Nel loro ultimo lavoro, presentato per il Romaeuropa Festival al Teatro Argentina, la coppia di artisti mette in scena una performance da loro stessi definita «un prologo, un gesto nudo e crudo che circola tra corpi e voci, ritmi e danze consumate, cadute e momenti, […], l’introduzione a una lingua senza parole che accade sotto le nostre vite, invitandoci ad osservare i nostri comportamenti nella superficie mutevole che i nostri gesti ci offrono».

Le gambe di un uomo e una donna entrano in scena bucando le pareti di uno spazio bianco al centro del quale attende un microfono solitario. Una volta “rotti i muri” i loro corpi si presentano per intero e vanno subito alla ricerca di una collocazione e di una ragion d’essere. La coppia sembra preparare uno spettacolo, una presentazione, provano il microfono ma il gesto di uno, talvolta, interrompe quello dell’altra. Entrambi provano piccole performance. Ogni sillaba diventa un vocalizzo, ogni gesto una danza, ogni contatto una fusione. I corpi si arrampicano l’uno sull’altro e poi in cima a una struttura. Le pareti alte e bianche che contengono la scena rappresentano lo spazio in cui i loro gesti formano ombre e segni neri, macchie di vita su una tela vergine. Appoggiandosi sulle pareti bianche, l’uomo scivola su di esse lasciandovi impresso il nero dei suoi vestiti. In quest’azione lo seguono la donna e, dopo un po’, anche una bambina. Quest’ultima appare molto più seria dei due adulti. Ovviamente, come ogni bambina gioca, cerca di arrampicarsi sulle spalle dell’uomo, si aggrappa alle sue gambe. Parla poco ma risponde anche a domande universali, solo in apparenza semplici. Cosa possiamo fare? Niente, non voglio fare niente! È chiaro il riferimento all’immobilità, all’inerzia a cui il periodo storico che stiamo vivendo ci costringe da mesi. Eppure ci dice che il corpo continua a muoversi.

La donna irrompe sulla scena imprigionata da una matassa di fili. Ancora domande. Stavolta è la coppia che si rivolge al pubblico. C’è un problema? I tre interpreti guardano il pubblico seduto e distanziato col viso semicoperto dalle mascherine. Loro sono gli unici privilegiati. Possono correre, toccarsi, cantare, parlare, ballare senza alcuna restrizione. Anche loro a volte si arrabbiano, gridano, soffrono. Ci sono anche momenti di gioco, piccoli accenni acrobatici, inserti di “nuovo circo” in un teatrodanza dal sapore nord-europeo ma che ha la solarità e l’allegria tipica ispanica. C’è un problema ma tutto si sistemerà, tutto andrà bene. Questa è la risposta che offrono al pubblico. Lo dicono con un sorriso, con speranza, con semplicità. Più tardi l’uomo maneggia il microfono dal filo lunghissimo che sarà poi il suo strumento di disegno. Più che un pennello diventa una matita per giocare con i chiaroscuri. Ne risulta un disegno realizzato con le impronte lasciate dal corpo: macchie, scie, schizzi. In altre parole tracce, segni. Su semplici azioni come camminare, arrampicarsi, correre, emettere suoni con la voce si costruiscono sequenze, storie, forse già scritte, tracciati di vita già vissuti, ombre che restano impresse nella memoria, momenti da reinventare. Ci si avvicina alla fine costruendo immagini dal forte impatto emotivo: la donna, accasciata su se stessa dopo essersi lasciata scivolare lungo la parete, tiene in braccio la bambina, ricorda una madre, una Pietà dei giorni nostri; o ancora il bacio che la coppia si scambia seduta in cima alla parete frontale, con le gambe penzoloni come se i due fossero seduti su un cornicione; il modo in cui si aiutano per tornare giù sul palcoscenico aggrappandosi l’un l’altra, studiando percorsi e strategie di movimento e, soprattutto, continuando a lasciare nuovi segni. Probabilmente è questa la bellezza da ricercare nel nostro presente, un presente in cui tutto è stato già detto e fatto, a cui non resta altro che risignificare i gesti di una vita.



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