Arti Performative Focus

I danzatori della quarantena. Una riflessione sulle metodologie didattiche dell’arte coreutica tra pubblico e privato

Roberta Leo

L’emergenza Coronavirus è ormai il flagello del 2020, una dura prova per il nostro sistema socio-economico, politico, ambientale e sanitario. In particolare, per tutte le professioni dello spettacolo dal vivo il Covid-19 è stato soltanto l’ennesimo sparo sulla croce rossa. La struttura della comunicazione e il complesso mediatico del nostro Paese è ormai l’unico modo per far sopravvivere lo spettacolo dal vivo. Dentro una bolla fragilissima, sì, ma perlomeno in vita. Come sempre l’arte della danza è stata la più penalizzata. Le difficoltà scaturite dalla pandemia hanno colpito fortemente il settore coreutico, un ambito economicamente già in crisi da tempo e mai regolato da una vera e propria normativa generale. A testimoniarlo sono stati i numerosi provvedimenti-tampone emanati caso per caso negli ultimi decenni ma mai risolutivi del problema alla radice. Si pensi ai criteri di ripartizione del Fondo Unico dello Spettacolo (F.U.S.) da cui derivano le sovvenzioni ministeriali erogate a compagnie e fondazioni che operano nel teatro di danza; o più semplicemente alle scuole di danza, associazioni sportive dilettantistiche, associazioni e fondazioni culturali che da sempre navigano nell’incertezza del loro status giuridico, fiscale e amministrativo; o ancora, alle norme di sicurezza e igiene degli spazi in cui si svolge l’attività coreutica. Soprattutto non è mai stata effettivamente riconosciuta e tutelata la professione del docente di danza, una figura che, se adeguatamente preparata, potrebbe assumere notevole importanza nel sistema di formazione e identità culturale del nostro paese. Nel mare magnumdelle realtà private si distingue, discostandosene, l’Accademia Nazionale di Danza, unica istituzione statale di alta cultura per la formazione coreutica in Italia. Formalmente, approcciando l’emergenza sanitaria, l’Accademia si è dovuta adattare ai provvedimenti disposti dal Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca per tutte le altre università italiane. Pur essendo inserita nel comparto ministeriale dell’Alta Formazione Artistica e Musicale (AFAM), l’Accademia avrebbe dovuto ricevere delle direttive specifiche per fronteggiare la grave situazione del Covid-19 in ragione delle peculiarità proprie dell’arte coreutica. Il distanziamento sociale, unica arma per fronteggiare il virus, si è rivelato invalidante per lo studio della danza e, tuttavia, indispensabile per il bene superiore della salute pubblica. Dopo il primo inevitabile momento di sconforto il mondo della danza, e ancor di più l’Accademia, ha dato prova di una straordinaria capacità di adattamento a una situazione che sembrava essere il colpo di grazia per un linguaggio già in crisi, dimostrando ancora una volta come i danzatori siano individui, per la propria forma mentis, dotati di un’intelligenza e di una sensibilità autentiche. Così come la danza è cambiata nel corso della storia, allo stesso modo anche il danzatore si è adattato a tali evoluzioni. Alla luce della pandemia è stato necessario e doveroso rivedere non solo il sistema di insegnamento della danza ma anche la danza stessa, la figura del danzatore e soprattutto del docente. Il danzatore del 2020, nell’anno del Covid-19, possiede, oggi più che mai, una mente non rigida e schematica, bensì flessibile, come il suo corpo. È emerso sicuramente come certe rigidità rappresentino l’immagine formale del danzatore ma al tempo stesso anche la sua sostanza. Tale rigore è paradossalmente necessario per ottenere quella libertà e artisticità del movimento tradotte in una danza libera nell’espressione, ma forte e salda nella sua tecnica. Strumento emblematico per fronteggiare il virus è stata la didattica a distanza, usata nelle altre realtà didattiche, pubbliche e private. Ora, premesso che la danza sia un’arte che non può prescindere dal contatto fisico e umano, dalla vicinanza e dal continuo “sentirsi” con gli altri, la didattica a distanza è stata un mezzo, forse palliativo, per mantenere tale contatto ma anche per conoscere e confrontarsi con tanto altro. È stata approfondita la teoria con lo studio e la lettura di testi specifici; la visione di un balletto è divenuta il modo più diretto e immediato per farne un’analisi; il confronto costante tra allievi e docenti ha permesso l’instaurarsi di rapporti più umani sebbene coltivati solo virtualmente; la realizzazione e la diffusione di contributi multimediali ha sviluppato l’interazione con le nuove tecnologie; l’ascolto più cosciente della musica ha riacceso una maggiore sensibilità dell’orecchio musicale. Tutto ciò ha contribuito a una crescita personale e a un approfondimento culturale pensati esclusivamente “per la danza” che, forse, senza il virus non ci sarebbero stati.

È, dunque, opportuno fare alcune considerazioni tecniche sul lavoro specifico che danzatori, docenti e coreografi stanno affrontando in questi mesi, a prescindere dal loro contesto d’espressione. Mentre gli allievi più giovani e i danzatori professionisti ogni giorno compiono uno sforzo enorme per sopperire alla mancanza di fisicità e di spazi idonei per l’allenamento e il mantenimento della forma fisica, su docenti e coreografi pesa una doppia fatica. Confrontandosi, in primo luogo, sulla mancanza di materiale umano destinatario delle lezioni di danza, si sono trovati ad applicare le loro personali competenze metodologiche senza la possibilità di “sentirle” in modo completo sul proprio corpo ma soltanto filtrandole attraverso lo schermo delle lezioni online (ultima operazione commerciale del business della danza che sicuramente è utile nel momento d’emergenza, ma assai fuorviante per gli allievi più giovani). È infatti giusto ricordare che l’esercito di insegnanti di danza, ancora scarsamente regolamentato e riconosciuto dalla legislazione lavoristica italiana, costituisce, ancor prima, un esercito di danzatori che, in quanto tali, necessitano di uno studio e di un allenamento costante. Il fine dell’attività di un docente di danza è diverso ma lo strumento resta il medesimo dell’allievo: il corpo. Per ovviare ai disagi causati dalla necessità di mantenere il distanziamento sociale ci si è approcciati a un lavoro più “consapevole”. Non basta più applicare i principi della tecnica accademica ma serve, piuttosto, sviscerarli nella loro struttura analitica e saperli trasmettere secondo una progressione temporale non rallentata ma “intelligente”. Ogni passo e movimento va esaustivamente analizzato nella sua dinamica fisica e musicale cercando di educare l’allievo a un ascolto più interiorizzato della musica, della mente e del corpo. Lavorando in ristrettezza e in solitudine si sta riscoprendo un nuovo tipo di percezione della danza che sta fruttando un lavoro straordinariamente amplificato. Forte di questa “intelligenza sensibile” intellettuale e corporea, i danzatori, docenti e i coreografi della quarantena potrebbero ergersi a modello di formazione coreutica e di ricerca del “pensiero” nella danza. E quest’ultimo andrà necessariamente riportato, appena sarà possibile, senza dubbio nelle sale e nei teatri ma, prima ancora, sul più vasto palcoscenico della vita.

 

[Immagine di copertina: Edgar Degas, “Danzatrici che si esercitano alla sbarra” (1877)]



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