“Outwitting the Devil”: Akram Khan e il mito umanizzato
È ormai un sentire diffuso nella danza contemporanea, quello di portare sul palcoscenico una danza umanistica, dando corpo alla crisi che stiamo vivendo in questi anni di benessere quasi esclusivamente digitale e tecnologico. Basti citare lavori abbastanza recenti di coreografi come Hofesh Shechter con il suo Political Mother Unplugged o Wim Vandekeybus con Traces che hanno danzato temi quali la disperata ricerca da parte dell’uomo di un’identità, il concetto di comunità nelle sue varie declinazioni, il disastro ecologico-ambientale.
A proseguire su questa linea coreo-drammaturgica è il coreografo britannico Akram Khan che il 21 gennaio ha portato in scena al Teatro Valli di Reggio Emilia il suo nuovo lavoro Outwitting the Devil. Già nel 2019 Khan aveva raccontato con Xenos l’orrore della guerra, la paura, l’odio per lo straniero; con la sua fortunatissima Giselle aveva messo sotto la lente del suo genio coreografico anche il dramma della schiavitù e dell’immigrazione. Con Outwitting the Devil è il turno della hybris, la superbia e la tracotanza umana di classica matrice, che portano l’uomo a schiacciare chiunque gli capiti sotto tiro pur di raggiungere un’immortale supremazia.
E per rendere al meglio il concetto, Khan si ispira nella sua coreografia a un frammento delle dodici tavolette d’argilla narranti l’antico ciclo epico di origine sumera L’Epopea di Gilgamesh, un poema arcaico intriso di simbolismo e di religione patriarcale. Fa poi partire l’azione coreografica da un freeze che ripropone un’immagine celebre, l’affresco dell’Ultima cena. Il tavolo immaginario dell’ultimo pasto è, però, posizionato di sguincio, secondo una sbieca prospettiva. Disposti in diagonale, un uomo e una donna sono protesi verso il centro, come a chiedere aiuto; l’uomo, accasciato, fa per tendere la mano, la donna si chiude su sé stessa fin quasi ad appoggiare il torace sui femori. Al centro due diversi momenti: un uomo e una donna si guardano con desiderio, opponendo le spalle in una perfetta opposizione; accanto a loro due uomini hanno appena lottato, uno ha subìto la forza dell’altro che lo trascina tirandolo per una gamba. Khan umanizza questo celebre quadro e lo colloca nella scenografia del visual designer Tom Scutt che perimetra il palcoscenico con cubi e parallelepipedi, rovine di templi e città distrutti nel tempo, tumuli e tombe di antiche divinità, resti di valori caduti.
La danza si fa poi sempre più plastica, carica di volumi ma a tratti costellata da spigoli, ben inseriti sui boati e sui ruggiti della musica di Vincenzo Lamagna. I costumi di Kimie Nakano, tuniche per le donne e pantaloni per gli uomini, sono del color della terra e le luci di Aideen Malone sono squarci e tagli debolissimi nel buio dell’antichità.
L’epopea contemporanea di Khan racconta, così, la condizione umana con i suoi limiti, una sfida folle. È come se (e ce lo suggerisce il titolo) l’uomo volesse prendersi gioco del diavolo, stringere magari un patto con quest’ultimo per poi ingannarlo. Il diavolo è anche lui umanizzato e interpretato da un danzatore ultrasettantenne, un corpo consumato, una testa canuta ma che con la sua danza serpentina evoca proprio il male, la tentazione. Apparentemente fragile e innocuo mostra una fisicità violenta e distruttiva. Un moderno Giuda, insomma, che siede al tavolo con i suoi fratelli prima di tradirli.
Pur facendo nascere il soggetto dalla letteratura sumerica si ha l’idea di una civiltà indefinita e senza tempo, un popolo barbaro governato da mito, religione ma anche da leggi naturali non scritte e insite nella comunità fin dalla sua nascita. Il coreografo non manca di illustrare con la sua danza tutti i momenti che tratteggiano il flusso della vita umana: gli incontri, l’amore, la guerra, il ripristino di un ordine precostituito che muore e rinasce dalle proprie ceneri. Per non alienarsi dalla realtà, per ricordare e indagarsi guardando al mito e all’antichità, provando a farvi ritorno.
[Immagine di copertina: foto di Klaus Tummers]