Arti Performative Dialoghi

“Vivaio – Coltivare il Teatro in Città”: a Terlizzi è nato un nuovo festival. Intervista al direttore artistico Michele Altamura

Nicola Delnero

Prendersi cura l’una dell’altro tentando di abbattere le barriere delle convenzioni. A Terlizzi (Bari) negli ultimi giorni di luglio (28, 29 e 30) ha avuto luogo Vivaio – Coltivare il Teatro in Città, prima edizione di un evento che si auspica possa durare nel tempo nata dalla collaborazione tra la Cooperativa Sociale Zorba e la Compagnia VicoQuartoMazzini, con il patrocinio del Comune di Terlizzi. Una tre giorni che di teatro si nutre ma che sarebbe riduttivo etichettare come esclusivamente teatrale, partendo proprio dalla scelta delle location – una fornace ceramica, un’azienda florovivaistica e delle serre didattiche – divenute palcoscenici non convenzionali dove si sono alternate alcune delle realtà Under35 più interessanti della scena nazionale come Francesca Astrei, Matilde Vigna e Nardinocchi/Matcovich. Appuntamenti con le nuove traiettorie della scena contemporanee, dunque, anticipati, in ciascuna delle giornate, da Germogli – Il Vivaio della Città, sezione curata da Roberto Covolo (Comune di Bari – Responsabile Economia Urbana) in cui ragazze e ragazzi terlizzesi hanno raccontato le idee con cui stanno provando a cambiare la città. Tutto questo è avvenuto in una comunità che vede da diversi anni il proprio teatro comunale chiuso (Teatro Millico), anche se da tre anni un’operazione dal nome inequivocabile – “Apriti Millico” – ideata e portata avanti da Michele Altamura e l’Associazione Culturale VicoQuartoMazzini, in collaborazione con l’Associazione Culturale Arci La Garra di Terlizzi, sta promuovendo la cultura teatrale volta alla formazione di spettatori consapevoli attraverso incontri preparatori, visione degli spettacoli e incontri con gli autori. Inserito tra i ventisei Progetti Speciali del 2023 finanziati dal Ministero della Cultura, “Apriti Millico” ha portato i partecipanti a raggiungere (tramite bus condiviso) alcuni teatri regionali e anche un festival nazionale come il Kilowatt in provincia di Arezzo, con l’idea che il teatro è un bene a cui nessuna comunità dovrebbe rinunciare. Abbiamo incontrato proprio Altamura, direttore artistico di Vivaio, al termine della rassegna per parlare di questo nuovo progetto.

Prima edizione di Vivaio, quali sono stati gli stimoli e le ispirazioni che hanno portato alla nascita di questa rassegna?

Direi che ci sono state tante ispirazioni. Molto importante è stato osservare l’esperienza barese di Roberto Covolo, “Un negozio non è solo un negozio”, iniziativa di innovazione e ibridazione a sostegno delle attività commerciali. Quindi, partendo da quello spunto, abbiamo potuto immaginare che anche un laboratorio di ceramiche non è solo un laboratorio di ceramiche, un vivaio non è solo un vivaio e un teatro non è solo un teatro, cioè non è solo un posto dove si fanno degli spettacoli ma deve essere un posto dove le persone si ritrovano. Ripensare un’identità cittadina, dunque, per ritrovarsi in alcuni dei luoghi di attività cardine (nella fattispecie, per Terlizzi sono le ceramiche, i fiori e l’olio, se vogliamo) è una delle prerogative di questo percorso. Ad esempio, tra i vari luoghi scelti ci sono state le serre, dei luoghi in cui la cooperativa Zorba – capofila di questo progetto – sta costruendo delle serre didattiche. Stiamo inoltre ragionando sulla possibilità di costruire un teatro naturale da 120 posti, tutto in legno (legno delle barche) con quinte fabbricate con vite canadese: un teatro nella campagna che possa avere un occhio al futuro e non solo alla tradizione.

Anche l’esperienza di “Apriti Millico” ha avuto un ruolo determinante…

Le pratiche sperimentate con “Apriti Millico” sono state necessarie. In quel progetto abbiamo sempre proposto spettacoli non di “cassetta”, non di semplicissima fruizione, qualcosa che uno spettatore che ha il proprio teatro cittadino chiuso tendenzialmente non va a vedere (ad esempio, Pippo Delbono o Danio Manfredini). La sfida è stata quella di capire se, spiegando chi siano questi artisti, la loro storia e le loro ispirazioni si potesse creare un cortocircuito. Una chiamata pubblica nata con basse aspettative ma che in realtà mi ha scombussolato, visti i risultati che hanno portato alla partecipazione di novantacinque persone che a vario titolo si sono interessate a questa iniziativa. E lì mi sono detto che se il terreno è così fertile da poter proporreAl presente di Manfredini e poi poterne parlare a persone che rimangono senza parole nel vedere qualcosa che molto probabilmente mai sarebbero andati a vedere, forse si potrebbero anche portare delle compagnie giovani che fanno un lavoro che si ponga il problema del pubblico, cioè del destinatario a cui mi sto rivolgendo; e di rimando che possano trarre energie vitali proprio da quel pubblico. Stiamo con le persone, stiamogli accanto, stiamogli vicino, vogliamo bene a questi artisti viventi. Con questa prospettiva nasce Vivaio, che da una parte ha l’idea dell’identità cittadina mentre dall’altra ha anche quella di prendersi cura, come spettatori, delle realtà che stanno nascendo; non per “consumare” semplicemente uno spettacolo ma per mettersi a fianco e fare il tifo per delle artisticità che stanno crescendo; che poi è quello che avrei voluto io quando abbiamo messo in scena i primissimi spettacoli, cioè trovarmi in un contesto in cui poter stare bene.

In una Regione in cui si sente la mancanza di giovani compagnie, la scelta artistica di proporre spettacoli di artisti Under35 non è certamente banale…

Le compagnie under 35 pugliesi ci sono ma non sono qui. Quindici anni fa c’erano delle politiche pubbliche pugliesi che hanno consentito la nascita e la crescita di giovani compagnie, ma ora tutto è cambiato. Oggi se si vuole invitare una compagnia giovane significa che l’organizzatore deve lavorare di più perché occorre creare un legame personale e ridurre o eliminare l’intermediazione, ossia il distacco tra artista, pubblico e direzione artistica. Questa cosa però richiede un grandissimo lavoro di cura. I teatri che hanno una storia tendenzialmente non saranno mai vuoti perché vivono della propria storia, però secondo me quel sistema va ristrutturato. Se si vuole il pubblico vero bisogna lavorare di più, occorre parlarci, dedicargli del tempo. Il fatto che noi siamo una compagnia facilita tutto perché sappiamo come vogliamo essere trattati, quelle piccolezze che vorremmo quando veniamo ospitati nei posti. Ma a questa cura sul versante artistico va accompagnata anche un’altra dalla parte del pubblico, con il tentativo, poi, di provare a tirarsi indietro e portare quest’ultimo a prendersi cura reciprocamente in maniera autonoma. Un teatro come luogo della cura tra le persone, dunque. Tante volte questi meccanismi di cura non ci sono, come non c’è un’altra cosa: la difesa degli spettacoli. Per questo mi piacerebbe trovare anche un momento con critici e operatori – magari il giorno dopo – in cui con calma si parli sensatamente dello spettacolo.

Ad esempio, una cosa che ho chiesto alle compagnie è stata di stare tre giorni sul posto, per restare con la gente e con gli altri artisti. Condividere. Aiutare a rendere la dimensione più umana. Tante volte questa umanità a teatro non si percepisce e me ne rammarico dato che ho scelto di fare teatro proprio per quell’umanità. Inoltre, il fatto che Germogli racconti di ragazze e ragazzi di Terlizzi che provano a fare cose innovative e che gli artisti si ritrovino lì a sentire cosa avviene nel luogo in cui fanno spettacolo la trovo una cosa molto interessante. È questo il livello di coinvolgimento che vorremmo creare. Magari anche proponendo laboratori non necessariamente teatrali ma che rispecchiano in qualche modo il luogo che li sta ospitando e che non necessariamente debbano coinvolgere il maggior numero di persone possibile perché è anche benaccetto non ragionare sempre sui grandi numeri.

Di qui a tre anni come vedrebbe il festival sia dal punto di vista artistico che da quello del coinvolgimento della comunità?

Una cosa che mi sarebbe piaciuta fare già quest’anno è trovare un meccanismo – non mi sto inventando niente di nuovo, lo so – in cui gli artisti sono ospitati dai cittadini, nelle loro case. Mi piacerebbe che in qualche modo il teatro arrivasse in città e anche avere la possibilità di ospitare alcuni spettacoli tecnicamente più complessi, quindi adattabili ad altre location. Sul coinvolgimento della città non me lo immaginerei più grande, mi piacerebbe che si coinvolgessero di più le attività, che la gente riuscisse a diventare protagonista e non solo fruitore, senza essere guidata. Con “Apriti Millico” questo in parte siamo riusciti a crearlo. Ad esempio, i partecipanti mi hanno chiesto di tenere un laboratorio teatrale, io ho accettato solo a patto che lo organizzassero loro. Questa è una cosa che mi ha spiazzato, perché totalmente incontrollata. Ecco, se “Vivaio” riuscisse a fare lo stesso, ossia sprigionare energie di persone che si auto-organizzano proponendo e collaborando alla realizzazione di attività, sarebbe il massimo grado di coinvolgimento. Perdere il controllo per crescere, ma tutti insieme. Mi piacerebbe che Vivaio esistesse a prescindere anche da me, che man mano attivasse nuove collaborazioni. Un arcipelago.

 



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