Arti Performative

Teresa Ludovico/Antonio Tarantino // “Barabba”

Nicola Delnero

Personaggio singolare, quello di Barabba: tutti sappiamo chi è, ma ne ignoriamo la sua storia. Conosciamo le informazioni basilari, ma se si vuole scavare a fondo non c’è alcuna fonte che possa porre rimedio alla lacuna. Dunque, chi è Barabba? Certamente un bandito e un assassino, condannato a morte per sedizione e omicidio, successivamente scelto dalla folla che lo acclama «libero!» in cambio di Gesù e, quindi, graziato e rilasciato da Ponzio Pilato. Tutto qui, i vangeli e gli evangelisti non ci dicono più nulla di lui. Nulla da ridire, allora, se il personaggio e le vicende di Barabba vengano spesso proposte nel mondo dell’arte, specie in ambito cinematografico, seguendo le poche indicazioni disponibili. Certo, Brian di Nazareth dei Monty Python permettendo.

Ma c’è chi è andato oltre, tentando di costruire dal silenzio e dal non detto un verosimile quadro introspettivo sulla figura dell’uomo salvato da Cristo dalla morte in croce. È il caso di Pär Fabian Lagerkvist, scrittore svedese Premio Nobel per la letteratura nel 1951 che con Barabbas (1950) ipotizza una sorta di prosieguo ideale alle vicende note, restituendoci un uomo solo e senza alcuna certezza, ritrovatosi a dover subire lo stesso destino assegnatogli in principio. Romanzo che in seguito è stato più volte adattato per il grande schermo, con la versione di Richard Fleischer – con protagonisti Anthony Quinn e Vittorio Gassman – sicuramente ricordata tra le più riuscite.

Se Lagerkvist è andato pressoché in avanti con l’arco temporale, nella nostra penisola Antonio Tarantino ha immaginato un dissacrante flusso di coscienza a ritroso, ossia ritraendo il protagonista nella cella della sua prigione (e della sua vita) prima dell’apparentemente inevitabile crocifissione. Pittore autodidatta poi divenuto – nei primi anni Novanta, dopo aver compiuto cinquant’anni – drammaturgo, Tarantino ci ha lasciato nel 2020 dopo averci consegnato un patrimonio culturale di grandissimo rilievo, in cui certamente possiamo includere questo Barabba, testo del 2010 rimasto inedito fino allo scorso anno, quando Cue Press l’ha dato alle stampe e, in seguito, Teresa Ludovico ha deciso di metterlo in scena con debutto nel “suo” Teatro Kismet di Bari dal 16 al 18 dicembre.

Per Ludovico si tratta di un felice ritorno alla drammaturgia di Tarantino dopo Piccola Antigone, Cara Medea (2012) e Namur (2014); ma con questa pièce la regista torna anche a occuparsi di storie dalla matrice religiosa in chiave laica dopo Abramo (2015) dal testo del filosofo Ermanno Bencivenga, così come a ricomparire è il tema del doppio, più recentemente trattato nell’Anfitrione plautino (2018). Già, perché come ci tiene a precisare il protagonista tarantiniano, il proprio nome è Gesù Barabba – dall’aramaico “figlio del padre” –, quasi omonimo di quell’uomo che prenderà il suo posto sulla croce e che, come lui, si fa specchio di un’umanità che protende verso la marginalità, verso quegli ultimi che, forse, un giorno diverranno i primi.

Il testo è privo di riferimenti a noi familiari: non c’è il Golgota, non ci sono croci, così come assenti sono Pilato e il popolo che vuole Barabba libero. Non resta che il lucido delirio di un uomo alle prese con la ricerca di un senso da dare a una vita e a piccole certezze che gli sfuggono via per le mani, ché «da quando il mondo è stato inventato non c’è stato un minuto di pace! alla faccia del padre nostro che sei nei cieli!». Un visionario attacco al potere che si dipana in un prologo che è quasi un immutabile manifesto della vita carceraria e continua con un nudo e crudo flusso di pensiero dal ritmo cangiante, nutrito da un lessico sempre mutevole e da una parola cruda, schietta e mai doma.

Molto rispettosa del testo, Ludovico per metterlo in scena utilizza lo spazio verticalmente (scena e luci sono a firma di Vincent Longuemare) costruendo una sorta di torre fatta di tubi, scale e botole in cui l’alto e il basso, il sacro e il profano, la commedia e la tragedia si mescolano battuta dopo battuta, discesa dopo salita. La sua è una regia di estrema pulizia che sfrutta lo spazio e le luci in relazione al corpo dell’unico attore in scena, Michele Schiano Di Cola, potente e travolgente nel masticare e sputare le parole di Tarantino, il tutto muovendosi chirurgicamente lungo la scena verticale nella sua invettiva contro il potere in un continuo mescolamento di idiomi; arrivando a improvvisare un rap o a imitare personaggi illustri all’interno del suo costante e infruttuoso tentativo di mettere insieme i pezzi di un’inafferrabile verità per cercare, così, di ordinare quel caos perenne che è la vita. Forse troverà redenzione o forse no; forse c’è un principio di speranza o forse è solo una mera illusione. O ancora, forse, è solo e sempre un’estenuante e ineluttabile «roba da matti».

 



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