Cinema Il cine-occhio

Honey Boy

Stefano Valva

Il rapporto padre – figlio è una di quelle relazioni umane ove il cinema americano si è maggiormente cimentato, facendo sorgere addirittura una sorta di pensiero sociologico e filmologico attraverso il tema de “la ricerca del padre”, che è una questione spinosa per l’America stessa, date le radici sociali dovute al colonialismo, e per la perenne creazione di un’identità e di una storiografia alquanto complicate, più caotiche rispetto ai paesi europei (genitori non biologici del continente d’oltre oceano).

Una relazione umana insediata in ogni genere classico e/o moderno del cinema statunitense, tal volte il padre è una figura mancante (o per morte prematura, o per abbandono della famiglia), in altre è un esempio da non seguire, eppure il figlio – come per un inconsapevole destino genetico – diviene ciò che non vuole essere, ossia il proprio padre. Nonostante ciò, essa può essere (in pochi casi) anche positivista, quindi il padre come mentore, come guida, come figura che ha creato un percorso che il figlio si sente in dovere di completare.

Nella sua prima sceneggiatura di un lungometraggio, Shia LaBeouf si immerge proprio in tale relazione, seppur in Honey Boy (diretto da Alma Har’el) il plot non è basato letteralmente sulla ricerca del padre (come accade per esempio in una pellicola in ciò topica dello scorso anno, ossia Ad Astra con Brad Pitt, nella quale il viaggio della science fiction, ha come finalità non tanto la scoperta di nuovi mondi, ma ritrovare il “mio vecchio”), bensì rientra in quel filone più esistenzialista del tema, inteso come psicanalisi dell’ infanzia, e del rapporto nel tempo, che porti non solo ad una constatazione e/o individuazione del genitore, ma di conseguenza anche ad un’indagine su sé stessi e ad un’analisi oscura ed estenuante sul proprio Io.

L’Honey Boy è Otis, un ragazzo che vive in un bungalow con il padre (la madre presumibilmente li ha abbandonati per andare a vivere altrove); quest’ultimo porta il figlio sui set cinematografici per fargli guadagnare soldi attraverso comparse, o piccole parti con prestazioni fisiche (un po’ come uno stuntman). Tale lavoro permette ad entrambi di sopravvivere, dato che James è dedito all’alcool, alle droghe, non ha un’occupazione, mette costantemente il figlio sotto pressione, educandolo in maniera poco ortodossa; metodologia d’altronde che egli ritiene necessaria per rendere in futuro Otis una star. Nel film c’è in primis un alternarsi dei ruoli, con lo spettatore che a volte si confonde sul chi sia realmente il padre e chi il figlio, dato che i due si inter-scambiano comportamenti da adulto o da adolescente. La figura gerarchica/genitoriale viene annullata e dissacrata.

L’alternanza è anche tra azione presente e flashback, ove viene raffigurato sia Otis da adulto, costretto a continue terapie per liberarsi dal trauma dovuto ad un rapporto sui-generis, che Otis da piccolo, lasciato alla mercè delle situazioni più delicate e inedite per uno di quell’età: la gestione delle prime pulsioni sessuali, e la conseguente mancanza di una figura materna; l’assunzione di alcool; fumare le sigarette; la costrizione al lavoro minorile per sopravvivere; convivere sotto pressione, sotto giudizio, tal volte vittima di violenze gratuite.

LaBeouf, seppur abbia vissuto realmente tali situazioni nei panni del figlio (il film è indirettamente auto-biografico, quindi particolarmente sensibile per l’attore-sceneggiatore), qui invece interpreta il padre burbero, fannullone, inquisitore, e lo fa ottimamente, perché ingloba nei movimenti scenici e nell’espressione facciale tutta la follia, l’immaturità, l’instabilità, l’alienazione di una persona inadatta a gestire sia sé stessa, sia chi vive quotidianamente insieme a lei.

La sceneggiatura per distacco è l’elemento più interessante, anche se nella prima parte la gestione delle due parti del plot risulti superficiale, poiché sappiamo molto di Otis adolescente, e forse troppo poco di Otis adulto, quindi delle gravose conseguenze, dopo un’infanzia nefasta e assurda (le scene da adulto scadono in famosi cliché, basati su una fisiologica evoluzione di dinamiche e problematiche presenti già da minorenne). Eppure, grazie all’ascesa del pathos, della componente meta-cinematografica, e delle immagini-cristallo fra reale e immaginario, fra desiderio e realtà, fra resa dei conti con sé stessi e con l’altro, nella seconda parte Honey Boy diviene un’opera ancor più personale, ancor più profonda, ancor più tenebrosa e malinconica, quindi coinvolgente.

Con una scrittura sentita, riflessiva, sociologica, con dei dialoghi emotivamente d’impatto (sia in positivo, sia in negativo) tra il padre e il figlio, la regia d’altro canto non riesce a spiccare né per delle tecniche d’inquadratura suggestive tra i due protagonisti, né per una costruzione delle scene, che potesse amplificare la portata delle sequenze dialogiche tra i personaggi, e la riflessione interiore tra loro stessi. Fa invece un’ottima figura il montaggio, sia per una complicata gestione fra presente e flashback – che miri ad echeggiare un parallelismo ed una comunanza tra due momenti esistenziali così lontani -, sia nella parte finale, per la fusione delle immagini, ossia quelle su ciò che pensa il protagonista, e quelle su ciò che egli realmente vede, così da ipnotizzare l’occhio dello spettatore all’interno di un rapporto intrinseco tra percezione, pensiero e realtà.

Honey Boy allora approfondisce ancor di più “la ricerca del padre”, che è intesa come accettazione del padre, voglia di un padre, nostalgia di un padre, essere o non essere come il proprio padre; in sintesi, un contorto viaggio mnemonico che Otis deve affrontare per tutta la vita, ove la cosa più dura da accettare è che il passato, e ancor di più le persone (quelle più care, quelle più significative) non possono cambiare, possono essere solo metabolizzate, e magari apprezzate per quel minimo che ti hanno dato, non per quel tanto che ti hanno tolto.

L’opera è un incontro/scontro tra cinema e sentimenti personali, tra il prodotto e l’autore, tra film e vita, che poi sono due lati della stessa medaglia: i film riflettono l’esistenza e le situazioni culturali e antropologiche del mondo esterno, così come le persone possono avere una vita così sfaccettata e peculiare, da assomigliare ad una pellicola cinematografica. Immagini in movimento realistiche e psichiche, che divengono immagini meccaniche, come se avessero uno scopo terapeutico, sociale, affettivo, ma più di ogni altra caratteristica, hanno una funzione fascinosamente onirica (e un cineasta come Bunuel lo comprese in pieno, prima e più di tutti), perché la forma cinematografica – per dirla con Ejzenstejn – può donarci l’epilogo che vorremmo, quello che la realtà per alcune storie non potrà mai avere.


  • Diretto da: Alma Har'el
  • Prodotto da: Anita Gou, Alma Har'el, Brian Kavanaugh-Jones, Christopher Legget, Daniela Taplin Lundberg
  • Scritto da: Shia LaBeouf
  • Protagonisti: Shia LaBeouf, Lukas Hedges, Noah Jupe, FKA Twigs
  • Musiche di: Alex Somers
  • Fotografia di: Natasha Braier
  • Montato da: Dominic LaPerriere, Monica Salazar
  • Distribuito da: Amazon Studios (USA), Adler Entertainment (Italia)
  • Casa di Produzione: Automatik, Stay Gold Features, Delirio Films
  • Data di uscita: 25/01/2019 (Sundance), 08/11/2019 (USA)
  • Durata: 94 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Inglese
  • Budget: 3,5 milioni di dollari

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