Cinema Festival

Her Name Was Europa

Stefano Valva

Al di là delle politiche e degli estremismi, è risaputo che i nazisti furono dei pionieri per la società contemporanea (su ciò risulterebbe interessante anche la visione di una serie distopica di Amazon, ossia The Man in The High Castle, tratta da un romanzo di Philip K. Dick) nello studio sulla psiche umana, sulle tecnologie, e nei campi della scienza e della biologia. Proprio su quest’ultimi, fu – a ridosso della seconda guerra mondiale – uno scienziato innovativo (facente parte delle SS) Lutz Heck, il quale condusse una ricerca darwiniana, per risalire agli antipodi della famiglia del bestiame e dei bisonti europei, per cercare di riportarli in vita – attraverso un estenuante processo genetico – dopo l’estinzione avvenuta intorno al 1600. Tali bisonti vennero denominati Uro, e l’allora direttore del parco zoologico di Berlino, credeva che essi potessero risultare utili per le campagne, per le coltivazioni e come simboli dell’eccellenza della razza ariana.

Il documentario Her Name Was Europa, diretto a quattro mani da Anja Dornieden e Juan David Gonzalez Monroy, si sofferma proprio su tale ricerca dello zoologo, in rapporto anche al suo famoso libro “Animali, le mie avventure”, ove all’interno del doc gli autori ne sottolineano la copertina tedesca (la quale ritrae un bisonte legato al collo da una corda), per soffermarsi anche con le immagini sull’ossessione che i nazisti avevano per il dominio.

Eppure, il documentario non è semplicemente una biografia sulla vita e sui lavori dello zoologo, o un omaggio ad una fattispecie di animali (che vengono inquadrati costantemente come se ci si trovasse in un film di Robert Bresson, vedi per esempio Au Hasard Balthazar. Anche se lì, l’asino era il vero e proprio protagonista umanizzato), è altresì sia una pellicola che si rifà alle tecniche del cinema muto (per l’inserimento di didascalie e foto, che seguendo la terminologia dell’aforisma servono appunto per motivi didascalici, di spiegazione storiografica allo spettatore, ma anche come archetipi), sia un excursus su vari fronti: sul tema dell’evoluzione animale ed umana, su quello della ricostruzione organica di ambienti e di esseri viventi, e sul rapporto tra l’uomo e gli animali.

Essendo proprio una produzione tedesca, il documentario non si sofferma sulle questioni storiche relative alle azioni e alla logica naziste (anche se appaiono alcune sfumature chiave, tra le altre la citazione dello sfruttamento da parte del famoso zoologo dello zoo di Varsavia, per l’ottenimento di animali e di documenti preziosi su ricerche condotte in Polonia. Niki Caro nel 2017 ne diresse anche un film “La signora dello Zoo di Varsavia” con protagonista Jessica Chastain), confermando una volontà dell’attuale cultura germanica di sradicare anche attraverso il silenzio e l’indifferenza il proprio passato oscuro. Quindi l’opera si permea di obiettività, nella quale si mostrano le pioneristiche scoperte ed evoluzioni della scuola nazista nel campo delle scienze biologiche, in concomitanza con un’ideologia culturale regressiva, ossia basata sull’assuefazione degli esseri viventi e della natura.

Her Name Was Europa è in sintesi un documentario duttile, sfumato, sfacciatamente darwiniano, ed allo stesso tempo curioso di analizzare come la scienza possa sia accettare, sia scardinare la teoria dell’evoluzione, e quindi capovolgerla (un mantra che in pittura fu anche di Pablo Picasso in relazione al cubismo. Una corrente artistica che aveva bisogno di assimilare l’arte tradizionale, per poi sovvertirla). Un’opera scandita di piccoli frammenti di monologhi e/o dialoghi (prevalentemente durante le interviste agli scienziati sullo studio degli Uro e dell’evoluzione degli animali da bestiame, dal 1600 ad oggi), e che esteticamente assomiglia ad un libro da enciclopedia. Così come se leggessimo il testo di Heck, l’opera cinematografica la ammiriamo, la ascoltiamo, la leggiamo e la percepiamo, perché l’arte sintetica può esaltare e attivare tutti i sensi del corpo e della psiche. Essa inoltre, può fungere da potente iconografia, in tal caso sul come era radicata all’epoca dei totalitarismi (ma anche in precedenza) la citata logica umana di sottomissione degli animali, e sul come invece essa dovrebbe essere inquadrata – secondo i paradigmi della convivenza – nella modernità.

 

 



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