Musica

Staer – s/t

Gianpaolo Giordano

Dalla Norvegia arriva un nuovo gruppo molto interessante, gli Staer, che pubblicano su Discorporate Records il loro lavoro omonimo.

Da sempre la scena musicale norvegese conserva un’attitudine che li distingue dai loro modelli musicali (britannici o americani che siano) e che permette loro di non essere visti come semplici riproduttori di scie già esistenti (si vedano progetti come Motorpsycho, Kings of Convenience, Röyksopp, Ulver). Per i giovani Staer vale lo stesso discorso, ma non hanno proprio nulla a che vedere con i gruppi menzionati: qui si tratta di sludge, stoner, metal, jazz, noise, etichette imprecise, oltre che semplicistiche, perché all’ascolto di questo debut album, un amante del genere non può non apprezzare la strabiliante capacità di sintetizzare ed amalgamare vecchi stili, oltre che la cura e della ridefinizione con le quali sono state composte le sei tracce.

La macchina indemoniata degli Staer viene azionata premendo il tasto play della prima traccia: da lì gli attimi di tregua saranno pochissimi. Det År Nyår, Jävlar è un delirio scandito dagli inarrestabili feedback della chitarra e dai ritmi convulsi e variati dettati dal legame tra basso e batteria, squisito e saldo per tutta la durata dell’album. In I roll with Creflo si ha un bagliore di lucidità e regolarità: la chitarra non ha qui altra funzione che mantenere altissime le note urlanti, mentre i bicordi del basso distorto delineano il riff principale, discese cromatiche che ricordano i bei vecchi Melvins di Houdini e Stoner Witch. Il riff principale di Sex Varnish sembra fare l’occhiolino al Josh Homme (quello dei Kyuss però), prima che il suono del metallico cominci ad abbassare i toni all’inverosimile ed affondare in una palude silenziosa, da dove ricomincia la marcia. I suoni sintetici di French Erotique si dilungano in una stonatissima antimelodia in controtempo, ma tutto è in ordine nell’orchestra degli Staer, i tre strumenti si incastrano e strisciano compatti, seppur in direzioni diverse. Fluorescent Spots / Holiday Car è un’alterazione, quasi satirica, degli schemi musicali jazz, ingoiati dall’ottica di un teatro dell’assurdo, dove dominano nauseanti assoli di batteria e pesantissimi climax discendenti. Dopo un’onirica introduzione quasi post-rock, il pezzo conclusivo, Dr. Life, si distende in una lunga cavalcata, prima in chiave metal, poi in ritmi sincopati (vedi Queens of the stone age, Hispanic impressions) per chiudersi un tre rullate mozzafiato.

Gli Staer riescono ad tracciare un considerevole distacco dagli innumerevoli gruppi emergenti intenzionati a riprendere il sound putrido, fangoso, ma pur sempre old school dello sludge/stoner/doom o come dir si voglia. A distinguerli è un’attitudine sperimentale che non deluderà le orecchie né dei fedelissimi di questo genere né dei ricercatori di sonorità alternative.

Gli Staer sono pronti a sorprendere il vecchio continente con un interminabile tour che, purtroppo, non toccherà la nostra penisola.



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