Cinema Festival

Gunda

Stefano Valva

Il cinema dal secondo dopoguerra attraversò una “rivoluzione” narrativa (quella estetico-stilistica avvenne già nel 1941 con Citizen Kane di Orson Welles), a causa della crisi del Dasein – ossia la mancanza del tradizionale protagonista delle narrazioni letterarie e cinematografiche, ergo l’uomo – e dall’avanzare di ulteriori personaggi. In virtù di una progressione della tecnologia ci si avvicinò alla figura dell’artefatto, del robot; in virtù di un approccio ecologico e di esplorazione della natura ci fu un umanizzazione degli animali.

Proprio quest’ultimi, nella prima metà del ‘900 erano più figure allegoriche, che a se stanti. Basti pensare ad esempi chiave: in letteratura il celebre romanzo La Fattoria degli animali di George Orwell, ove i maiali sono la metafora dei bolscevichi e del circolo virtuoso della violenza sociale; al cinema – aldilà del mondo animato di Walt Disney – con pellicole frutto anche delle avanguardie, giusto per citarne una (oltre ai contemporanei, come War Horse di Steven Spielberg) Au Hasard Balthazar di Robert Bresson, nel quale l’asino è una figura umanizzata, senziente ed emotiva, come se fosse un uomo. Infine, ancora nel cinema, durante l’epoca dei formalisti russi, con il montaggio delle attrazioni nelle opere di Sergej M. Ejzenstejn, il quale in Sciopero (1924) per esempio, inserisce nel quadro un bue squartato al mattatoio, che è in analogia con la soppressione della classe operaia durante le rivolte.

Uscendo dall’excursus introduttivo, ciò che collega le citazioni narrativo-storiografiche con Gunda di Victor Kossakovsky (prodotto tra gli altri da Joaquin Phoenix e presentato al Festival di Torino) è proprio la figura dell’animale, dato che la protagonista tout court è una scrofa. Fanno da contorno altri due animali – i quali hanno in comune col maiale di essere le specie più sfruttate dall’uomo – ossia il pollo e la mucca.

Nel film, la rottura dei canoni estetici e narrativi della produzione cinematografica e l’estremizzazione – conseguente al postmodernismo – del cinema delle avanguardie sono rilevanti, poiché l’animale qui non viene né umanizzato, né è un compagno per un co-protagonista: è l’unico protagonista. Qui gli umani non appaiono mai, essi sono figure inafferrabili e inavvertibili, eppure aleggiano, così come i nazisti in Dunkirk di Christopher Nolan. La scrofa non è né un espediente da allegoria, né una trasposizione dei sentimenti umani, viene altresì descritta con crudezza – e spogliata da ogni convenzione culturale o antropologica – così da esaltarne la sua di sfera emotiva, e la rispettiva vita quotidiana, in rapporto con gli esseri della propria specie.

Nonostante ciò, è indubbio che il regista inquadra analiticamente gli animali, anche per trasmettere allo spettatore delle comunanze che ci sono con dei sentimenti prettamente umani: il senso materno, la protezione dei figli, la sofferenza a causa della perdita, il sacrificio genitoriale, la lotta primordiale condizionata nello stato di natura dalla legge del più forte. Quest’ultimo assunto, seppur sembri lontano da una società civile, si scorge invece anche nei contesti umani.

E quindi è proprio questo il fil rouge, perché l’autore intende sia rendere indipendenti gli animali da metafore, allegorie, parallelismi ed espedienti che possano semplicemente assimilarli all’uomo, sia allo stesso tempo avvicinarli alla sensibilità di chi si immerge in un’opera sfumata, per riflettere sul fatto che ogni essere vivente ha delle rispettive caratteristiche, fisiche e mnemoniche, in svariati casi simili all’umanità, la quale si ritiene egoisticamente al di sopra di ogni cosa.

Gunda d’altronde non è un’opera potente e singolare soltanto per il tema (più che mai attuale oggi), ma lo è anche a livello estetico: l’incipit e l’epilogo sono collegati tramite un’inquadratura che muta tra i due momenti solo in chiave prospettica, sottolineando il destino malinconico delle scrofe. Poi, l’opera è in bianco e nero e muta, anche se il film letteralmente muto non esiste, dunque Gunda è caratterizzata dal suono della natura, degli animali, dei furgoni, quest’ultimi simboli dello sfruttamento. Infine, la camera non si pone limiti visivi, perché essa entra negli sguardi, nelle azioni, nelle peculiarità, nei momenti empatici, nella psicologia e nelle pulsioni degli animali, in un modo che impressiona per oculatezza.

Una forma ibrida, perché l’opera è sia a tratti un documentario geografico, naturalistico, sia vicina ai canoni strutturali di un film rigoroso e smaliziato, inoltre con l’innata esigenza del cinema di avvicinarsi sempre di più alla realtà (Rudolf Arnheim ne scrisse già anni or sono in relazione all’avanzare delle tecniche, all’epoca quelle del sonoro e del colore, che scardinarono l’arte puramente creativa, ossia quella del muto).

Gunda è la chiara realizzazione di tale desiderio inconscio dell’arte meccanica, perché il regista qui è artista ma in primis umile uomo vertoviano con la macchina da presa, non vuole anteporre stilizzazioni o filtri, così da non alterare per lo spettatore (il quale deve essere qui più che in altre pellicole paziente e flessibile, verso un’opera non semplice da ammirare) la visione di una specifica realtà, che non va giudicata, bensì semplicemente metabolizzata come esistente. Sarebbe un primo passo, verso un approccio culturale differente per un prossimo futuro.


  • Diretto da: Victor Kossakovsky
  • Prodotto da: Anita Rehoff Larsen
  • Scritto da: Victor Kossakovsky, Ainara Vera
  • Fotografia di: Egil Håskjold Larsen, Victor Kossakovsky
  • Montato da: Victor Kossakovsky, Ainara Vera
  • Casa di Produzione: Louverture Films, Sant & Usant
  • Data di uscita: 23/02/2020 (Berlinale)
  • Durata: 93 minuti
  • Paese: Stati Uniti, Norvegia

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