Arti Performative Mutaverso Teatro

“Essere sogni che nessuno sogna più: il pericolo più grande per l’attore teatrale”. Intervista a Principio Attivo Teatro in scena a Salerno

Franco Cappuccio

Domani, venerdì 18 gennaio, un nuovo appuntamento con il Teatro – quello con la T maiuscola – a Salerno e a Mutaverso Teatro. Arriva infatti all’Auditorium del Centro Sociale di Salerno (via R. Cantarella 22, quartiere Pastena) dal Salento la compagnia Principio Attivo Teatro, che dal 2007 opera a Lecce, collaborando anche con diverse e importanti compagnie della scena nazionale e internazionale. Opera Nazionale Combattenti presenta I GIGANTI DELLA MONTAGNA ATTO III, scritto da Valentina Diana e diretto da Giuseppe Semeraro, è lo spettacolo che trae ispirazione dall’ultimo atto mai composto de I giganti della montagna di Luigi Pirandello, e i cui appunti furono dettati al figlio Stefano. Abbiamo chiesto al regista Giuseppe Semeraro come si lavora su un’opera, e per la precisione, su un atto di un’opera teatrale, incompiuta, e in che modo oggi si può ancora dialogare con quest’opera tenendo in profonda considerazione la poetica pirandelliana.
Come è nata l’esigenza di approcciarti a un testo “esistente nel suo non esserci” come è I giganti della montagna, che pur essendo incompiuto, porta con sé da un lato un ormai enorme lavoro di ricerca su quel che sarebbe potuto essere, dall’altro si relaziona per forza di cose con la poetica e la drammaturgia di Pirandello stesso.
Ci siamo avvicinati a questo testo in maniera inconsapevole. Stavamo studiando con gli attori e Valentina Diana, la drammaturga con cui collaboriamo, alcuni testi che parlavano in maniera diretta o indiretta della vita e delle condizioni degli attori e ovviamente ci siamo imbattuti nei Giganti della montagna. Giravamo intorno a degli argomenti molto complessi prendendo appunti e accumulando materiale nato dalle improvvisazioni. Nelle varie fasi di lavoro, come spesso accade, c’è stato un momento in cui siamo entrati in crisi, ed è stato in quello stesso momento che abbiamo capito che l’opera era già sotto i nostri occhi. Un giorno ho detto a Valentina: “perché non lavoriamo all’ultimo atto dei Giganti della montagna?”. Era un’idea che non era nata dalla semplice stravaganza o da una geniale intuizione, ma da un lavoro che inconsapevolmente stavamo già facendo tra di noi. Stavamo raccontando e mettendo nel lavoro le nostre vite di attori e artisti con tutte le nostre grandi e misere difficoltà. Valentina, quasi segretamente e anche lei inconsapevolmente, già annotava durante le prove tutte le discussioni  e le piccole liti tra noi attori. Quando abbiamo letto il copione iniziale scritto da Valentina e vi abbiamo ritrovato molte nostre discussioni abbiamo capito che la compagnia di cui parlava Pirandello eravamo noi. Ecco che avevamo già una specie di copione molto vicino a quell’incompiuto ultimo atto dei Giganti e in più avevamo anche il vissuto concreto di tutti quei personaggi pirandelliani che diventava in noi materia concreta.Pian piano abbiamo accettato noi in primis che questa modalità era forse la maniera più intelligente di dialogare oggi con la poetica pirandelliana. 
La compagnia è da voi chiamata Opera Nazionale Combattenti, come l’ente assistenziale fondato alla fine della I guerra mondiale per supportare il reintegro in società di coloro che vi avevano combattuto. C’è una dicotomia nel concetto di “reduce” in campo militare e “reduce”  in campo teatrale?
Vicino casa mia, nelle campagne dell’area leccese, c’è un vecchio edificio che sempre mi ha affascinato. Sopra c’è una grande scritta: “Opera Nazionale Combattenti”. Quel nome, di cui conosco benissimo la storia, mi ha sempre affascinato perché rimandava a un ente ormai decaduto e che poteva essere il nome giusto per quel manipolo di fanatici pirandelliani che portavamo in scena. Un nome evocativo e che allo stesso tempo faceva proprio al nostro caso, a noi che volevamo dare un nome a questa compagnia di disadattati.
In Pirandello c’è un forte rapporto tra chi recita e lo spettatore, in quanto l’area performativa è palco di chi guarda, e al tempo stesso retropalco di una platea immaginaria. In che modo avete lavorato su questa osmosi?
Quando abbiamo dovuto pensare allo spazio scenico in cui calare questo testo abbiamo fatto la cosa più semplice, seguire le indicazioni di Pirandello. Il giorno prima di morire, forse in preda al delirio, dettò a suo figlio alcune indicazioni sommarie su come lui intendeva portare a termine l’ultimo atto. Noi siamo partiti da quel foglietto e abbiamo sviluppato la drammaturgia in maniera molto fedele. Anche se potrebbe sembrare il contrario, devo dire che vi siamo stati molto fedeli.
Nello spettacolo emerge il tema dell’inevitabilità del teatro, e del concetto di destinatario dell’arte teatrale. La compagnia arriva, e così come è arrivata, se ne va, lasciando lo spazio vuoto, testimoniando il compito/lavoro di chi fa teatro. Qual è il vostro pensiero in merito?
Il mio o il nostro pensiero in merito è fatto di azioni, parole ed emozioni che proviamo a trasmettere stando sul palco. Non riesco a chiudermi in un pensiero. Credo che ci sia in questo lavoro una grande voglia di stringere con il pubblico un patto profondo di amore e di ribadire un concetto banalissimo che voglio ripetere con le parole che Valentina Diana mette sulla bocca di Ilse, la protagonista.
Riferendosi al pubblico Ilse dice: “Noi senza di loro non esistiamo, siamo sogni che nessuno sogna più”.
Questo per me è il pericolo per gli attori e per il teatro, essere sogni che nessuno sogna più.


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