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“Il silenzio grande” di Maurizio De Giovanni diretto da Alessandro Gassmann: metafora dell’esistenza

Giovanna Villella

Ultimo appuntamento con la stagione teatrale organizzata da Ama Calabria, con la direzione artistica di Francescantonio Pollice. In scena, al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme, Il silenzio grande di Maurizio De Giovanni, con Massimiliano Gallo, Gaia Benassi (in sostituzione di Stefania Rocca), Pina Giarmanà, Paola Senatore e Jacopo Sorbini. Regia di Alessandro Gassmann.

Ritratto di famiglia in un interno: Valerio Primic è uno scrittore famoso che vive relegato nella sua biblioteca impegnato a scrivere il suo ultimo romanzo di successo; Rose, sua moglie, si occupa della famiglia; i figli, Massimiliano e Adele, sono alla ricerca del loro posto nel mondo e la cameriera Bettina è indaffarata a rigovernare la casa. All’apparenza una storia comune, punteggiata da conflitti sinceri e da equilibri instabili che scompongono e ricompongono il tutto, come per caso. Poi la narrazione intera si rivela soprattutto mentale, deliberatamente teatrale, ambigua e scaltra come deve essere la scrittura che scopre via via via i suoi segreti, i turbamenti inconfessabili, le manifeste anomalie dei caratteri, la predisposizione degli eventi, le metafore dell’esistenza e dove ogni cosa appare come alterata, eccessiva, molteplice, fatua.

La scrittura di Maurizio De Giovanni si innesta su una precisa vena drammaturgica che va oltre il naturalismo sconfinando nell’oltre-visibile e rivela una storia tenera e ambigua, misteriosa e di sfumata poesia sull’incomunicabilità, sull’incomprensione, sul rimorso, sul rimpianto, sulla morte.

Il testo drammaturgico ha una cadenza sempre sospesa, come rarefatta, secondo segni laconici carichi di uno stupore dolce e tenero, come dolce e tenero è lo sguardo dell’autore al teatro che lo fa vivere, agli attori che lo animano.

Il décor, firmato da Gianluca Amodio, è improntato al realismo d’ambiente. La scena è occupata interamente da una biblioteca, luogo di lavoro e spazio domestico teso al massimo dei suoi umori intimi, pur nell’ordine rigoroso della libreria e nella disposizione dei pochi mobili: un divano, una scrivania, un vogatore. Ma è anche “rifugio” che diventa geografia di una esclusione volontaria e perimetro di alienazione nel quale ciascun personaggio si specifica nel lucido tentativo di mettere ordine nel caos dell’esperienza psichica e personale, affermando con prepotenza le proprie ragioni. È il mondo degli affetti in cui il grande silenzio – fatto di tanti piccoli silenzi – esplode nella “parola” che pronuncia l’esistenza restituendole le sue ragioni, private e pubbliche, indissolubilmente legate. È luogo di presenze/assenze e di memoria dove ciascuno proietta i propri ricordi che si inverano, in guisa di ologrammi, su un velatino. Impalpabile diaframma, esteso a tutta scena, all’interno del quale si compie la parabola dell’esistenza nel tempo circolare che comprende le radici prime e ultime della vita.

Gli squarci lirici sono affidati alla suggestione luminosa di Marco Palmieri, tenuta sui toni caldi o su singoli riflettori circoscritti da densi coni d’ombra.

Tutto è già accaduto. Sulla scena, i personaggi entrano ed escono cercando di districare un passato che tuttora incombe tra le pareti domestiche pronte, a loro volta, – con le loro porte attraverso le quali entrano e si materiano i ricordi e quel balcone, affacciato sul Vesuvio, che pare alimentare le speranze – a divenire, da strumenti reali, simboliche realtà.

L’azione scenica è tutta imperniata su un’attenta opera di collegamento e di scansione dei diversi momenti di incontro e di dialogo che si stabiliscono, di volta in volta, nel nucleo familiare. E il senso stesso del suo svolgimento è, poi, definito dalla netta cesura che si interpone tra la gioiosità espansiva e colloquiale del primo atto e l’incombente atmosfera di mestizia che si crea e lievita, a poco a poco, nel secondo, in attesa dell’agnizione finale. La stanza vuota e ingombra di scatoloni anticipa il cambiamento e l’inizio di una “nuova vita” per tutti.

Massimiliano Gallo, nel ruolo di Valerio Primic, è ricco di intensità, ma di una intensità vaga, sfumata. Splendidamente impostato sugli effetti di ritardando della battuta e sottilmente umoristico in quel suo rattrappirsi, incurvando le spalle, colora la sua interpretazione di variazioni ora comiche, con discese nell’inarticolato, ora drammatiche, in un crescendo da personaggio eduardiano. Apparentemente dimesso e disancorato dalla piatta realtà materiale, non ha contezza della vita minuta. La gestione dei problemi quotidiani è demandata alla moglie, compresa la dolorosa decisione di vendere la villa di Posillipo per sanare una situazione debitoria ormai insostenibile. Rose, la vera domina della casa che lotta per difendere il decoro, la dignità, l’affetto e la pace all’interno della sua famiglia, è interpretata da una vibrante Gaia Benassi tesa in tutto l’arco del suo virtuosismo nevrotico che si scioglie in quell’ultimo ballo, in quell’abbraccio vuoto, in cui il dolore rammendato impasta gesti e pensieri della vita che è stata.

“Il silenzio grande”. Foto di Federico Losito

I figli, ottimamente delineati da Paola Senatore (Adele) e Jacopo Sorbini (Massimiliano), si rivelano nel loro rapporto con il padre: confidenziale quello di Adele, conflittuale quello di Massimiliano. I loro dialoghi improvvisi, continui, fugaci, teneri, nascondono segreti e verità inconfessate, l’enigma di amori impossibili. Entrambi manifestano un disagio, un senso di mancanza, un cercare il proprio “riempimento” che in Massimiliano si risolvono in una omosessualità autopunitiva come rifiuto dell’immagine del padre, uomo idolatrato e di successo; in Adele nella ricerca di amori senili come proiezioni dell’immagine paterna. E, di padre in figlio, si ritorna al passato con l’evocazione, proiettata in bianco nero sul velatino, del padre di Valerio, dal quale il figlio ha ereditato l’attitudine al silenzio. Ma anche nel loro silenzio gli uomini chiedono qualcosa…

Una straordinaria Pina Giarmanà dà corpo e voce alla cameriera Bettina che arriva con passo felpato agitando il piumino come una spada, invadendo lo spazio di libertà di Valerio, interrompendo sovente il suo lavoro, origliando i dialoghi e le intimità del professore con gli altri abitanti della casa. Eppure Bettina è premurosa, devota, sagace e in grado di opporre la sua saggezza popolare, fatta di semplicità e di buon senso, alle citazioni colte e alle trappole lessicali del professore, in un sotterraneo conflitto di classe che si risolve però nell’affettuosità e nel rispetto reciproco. Portatrice di ragioni, la sua presenza sta nell’infrangere la realtà visibile, invitando Valerio all’ascolto degli altri, denudandolo del ruolo di maître à penser e conducendolo per mano a comprendere il senso vero delle cose e degli accadimenti. È per questo personaggio che l’opera tutta si innalza e commuove, aprendosi in una prospettiva di rasserenante riconciliazione con la vita.

Alessandro Gassmann su questo testo ha costruito uno spettacolo reale e astratto: fascino di una regia che sta tutta dentro la scena impreziosita dalle musiche originali di Pivio e Aldo De Scalzi e dai policromi costumi di Mariano Tufano. La sottile e ben congegnata ambiguità del testo è magistralmente governata, alimentando una moderata suspence in vista dell’epilogo. Gli attori tutti, in questo attraversamento reale e onirico, riempiono di suggestioni poetiche la scena, conducendo lo spettatore al coup de théâtre finale con un senso di amara dolcezza.

[Immagine di copertina: foto di Federico Losito]



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