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“Ragazzi di vita”: il sentimento del neorealismo da Pasolini a Popolizio

Roberta Leo

Neorealismo, degradazione ma anche la feroce spontaneità di una generazione e di una Roma meravigliosamente lontana. È ciò che emerge dallo spettacolo diretto da Massimo Popolizio, che ha portato in scena il romanzo di Pier Paolo Pasolini Ragazzi di vita, già vincitore di tre premi alla regia (Premio Ubu, ANCT e Le Maschere del Teatro). Lo spettacolo, che continua a circolare nei maggiori teatri italiani, come il Piccolo Teatro Strehler di Milano – dov’è stato in cartellone dal 16 al 27 gennaio scorsi – trasferisce sul palco quello che è stato spesso definito un romanzo-documentario, l’icona di un realismo mai tramontato e in cui a far da protagonista non è solo un gruppo di ragazzi romani, ma la borgata stessa cui appartengono.

I “ragazzi di vita” sono ragazzi di strada, sicuramente di “malavita”. Sono giovani uomini che non hanno colpe per la loro esistenza perché quest’ultima, così come la loro stessa emarginazione, non è che il risultato del contesto sociale e del degrado morale, materiale, in cui sono immersi. I ragazzi di vita abitano il confine tra la povertà assoluta del Dopoguerra e la speranza degli anni del “boom economico”. Non hanno sogni, o meglio, sanno di non poterne avere. Sulla scena portano un neorealismo ben lontano da quello del 1955 (anno in cui fu pubblicato lo “scandaloso” romanzo), privo del desiderio di un progetto politico e ormai spogliato anche della previgente poetica tipica del Verismo verghiano. Lo spettacolo descrive, semmai, le giornate alla ricerca di denaro, mostrando il modo in cui i ragazzi crescono nella loro scuola prediletta, la strada.

La drammaturgia, curata da Emanuele Trevi, segue la lingua pasoliniana, il romanesco. Il dialetto diventa lo strumento principale per identificare la Roma di quegli anni vissuta sulle rive del Tevere e i tram notturni di periferia. Diciotto ragazzi incarnano momenti di quelle giornate, attimi di vita. A narrare le storie di questi giovani è Lino Guanciale, che conferma la sua bravura, la sua elegante semplicità nell’interpretazione di testi così forti. Raffigura solo in parte l’alter ego di Pasolini. Il suo romanesco è verace, ma resta signorile. La voce, pacata ma guizzante. L’attore non fa emergere, come accade invece nel romanzo, l’esperienza di Pasolini come insegnante nelle borgate romane, non sottolinea elementi biografici come il suo rapporto con i ragazzi, il suo amore per quella gente di periferia. Piuttosto, Guanciale incarna con il gesto le parole del poeta corsaro, dà voce allo spirito dell’opera letteraria. Proprio come l’intellettuale friulano trapiantato a Roma, anche questo narratore conversa con i suoi ragazzi, gioca e corre con loro, li aiuta come può, da lontano, ma non troppo. È un uomo borghese, un po’ scamiciato e pur sempre ben vestito, che si stacca dal suo mondo per cercare di calarsi in un altro, quello della borgata. Vuole raccontare il suo senso di appartenenza, ma anche la sua solitudine, così vicina a quella dei suoi giovani compagni. Nel corso delle loro giornate i ragazzi si sfidano a fare i tuffi nel Tevere, a borseggiare signore sul tram, trascorrono le giornate afose rotolandosi fra la polvere delle borgate, sperimentando giochi violenti con incoscienza e spavalderia. Con le loro risate i giovanissimi attori sono l’emblema della vitalità e della leggerezza. Cogliendo la bellezza dei più piccoli particolari, raccontano il loro modo di vivere con spensieratezza e una ben celata rassegnazione a una vita misera. Sulla scena fanno grande uso del movimento, e appare evidente il risultato di un accurato lavoro sulla drammaturgia corporea. Traducono le parole con gesti ampi, esasperano movimenti di azioni quotidiane come salire e scendere dal bus; corrono, saltano, giocano alla lotta tra loro, mimano i loro racconti parlando di se stessi in terza persona e ponendosi contemporaneamente al di fuori e all’interno dell’azione scenica. La stessa scenografia accompagna il loro movimento: una piattaforma di legno si mostra versatile offrendosi come una barcarola, un trampolino per i tuffi, la cabina di una spiaggia. Quella dei ragazzi diventa un’interpretazione fatta di movimento e di suoni, una recitazione onomatopeica dove la lingua, accompagnata dalle canzonette romane di Claudio Villa, la fa da protagonista assoluta. Dipingono, così, immagini e ricordi, cartoline nostalgiche della Roma anni Cinquanta, e con il loro romanesco si distinguono dal dialetto trascinato e sbruffone dei giorni nostri. La lingua, di altri tempi, nel suo carattere popolare si riscopre paradossalmente raffinata: meno contaminata, e più vera. Tra i ragazzi spicca Il Riccetto, un ragazzetto dai ricci biondi che, sprezzante del pericolo, non esita a tuffarsi nel fiume per salvare una rondinella, ma anni dopo resta immobile di fronte a un ragazzo che sta annegando. È questo l’episodio che più di tutti simboleggia il triste epilogo dei ragazzi: il trionfo dell’egoismo, del pensare e bastare per sé soltanto, l’impossibilità di rendere sincera fino in fondo la loro umanità. Come tutti quei ragazzi Riccetto è strafottente, malizioso, ignorante. È il principale portavoce di uno stile di vita grezzo, materiale. Apparentemente nelle vite dei ragazzi non c’è amicizia, non c’è famiglia, non c’è amore. Il rapporto con l’altro sesso è culmine di un istinto che va necessariamente sfogato. I riferimenti sessuali sono espliciti, ma mai morbosi o denigratori; sono solo una fotografia di una prostituzione povera, inesperta, priva di raffinate seduzioni, nascosta in cascine abbandonate o all’ombra dei ponti che tratteggiano il Tevere. Forte è pure il richiamo all’omosessualità, vissuta come un mero espediente per procacciare qualche lira. Sembra esserci una totale assenza di valori, eppure, forse, il neorealismo di Popolizio  sembra una corrente del tutto nuova, che, come da tradizione letteraria e teatrale, non mancando di fotografare in modo verace un oggetto, da questa fotografia così nitida è anche in grado di andare “oltre”, di intravedere un soggetto. La vita dei ragazzi è una lotta per la sopravvivenza, un rassegnato vivere alla giornata mascherato da un linguaggio crudo, risate sguaiate, una dura corazza contenente un’infanzia e un’adolescenza difficili, una maturità mai raggiunta. Forse sta proprio qui il paradosso di certi “ragazzi di vita”, in quell’essere come intrappolati dentro a un limbo. Tra i bambini che non sono mai stati e gli adulti che mai diventeranno.

 

RAGAZZI DI VITA

di Pier Paolo Pasolini
drammaturgia Emanuele Trevi
regia Massimo Popolizio
scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi, canto Francesca della Monica
video Luca Brinchi e Daniele Spanò
assistente alla regia Giacomo Bisordi
con Lino Guanciale
e con Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Verdiana Costanzo, Roberta Crivelli, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Lorenzo Grilli, Michele Lisi, Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Alberto Onofrietti, Lorenzo Parrotto, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco, Francesco Santagada, Stefano Scialanga, Josafat Vagni, Andrea Volpetti
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale



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