Arti Performative

“Follia di Shakespeare – Macbeth vs Romeo e Giulietta” di Max Mazzotta in prima assoluta al Teatro Rendano di Cosenza

Giovanna Villella

Al Teatro Rendano di Cosenza ha debuttato lo scorso 23 aprile il nuovo spettacolo di Max Mazzotta Follia di Shakespeare – Macbeth vs Romeo e Giulietta all’interno della rassegna “L’AltroTeatro”.  Lo spettacolo, prodotto da L’AltroTeatro (Gianluigi Fabiano, Giuseppe Citrigno, Giada e Serena Falcone), è nato da un progetto della compagnia cosentina Libero Teatro. Protagonisti Stella Egitto e Lorenzo Richelmy, diretti da Max Mazzotta. Traduzione e riduzione testi sono a cura di Donato Martano e Max Mazzotta.

Follia di Shakespeare, liberamente tratto da Macbeth e da Romeo e Giulietta del grande Bardo, è molto più di uno spettacolo. È un’idea di teatro che Mazzotta fa vivere sul palcoscenico. Un teatro inteso come metafora e ritmo, quindi come pensiero e, insieme, come materialità fisica e oggettuale sulla scena.

La rappresentazione diventa una grande giostra che ruota continuamente passando dal buio alla luce come in un ininterrotto gioco degli specchi e tale rispecchiamento, a partire dal titolo – Macbeth vs Romeo e Giulietta -, si traduce in una duplicità che segna l’intera narrazione.

Avvolto in un denso volume di buio, il palcoscenico è il luogo drammatico dell’inconscio da cui provengono i fantasmi che spingeranno Macbeth al regicidio. Ci sono le tenebre e i tre colpi di bastone che, alla maniera antica, scandiscono il cambio di scena. Come nel bosco di Birnan si annuncia la lunga notte di Macbeth, con le streghe che si palesano in guisa di “punti luce” intermittenti e convincono Macbeth all’assassinio di Re Duncan attraverso la loro predizione di grandezza.

La storia è vissuta come in un incubo. Tutti grondano di sangue, vittime e carnefici. Il sangue non vuole andare via dal volto, dalle mani, dai pugnali «C’è puzza, puzza, puzza. Puzza di sangue… nessun profumo lo toglierà mai…» urla Lady Macbeth. Ma, con un veloce cambio di luci e abiti, la tragedia dell’ambizione e della paura diventa una commedia popolare in cui la “faida” tra le due famiglie, i Montecchi e i Capuleti, si consustanzia in una partita di pallone. Gli attori si precipitano in scena come in West Side Story e riempiono lo spazio con un movimento corale, alternando momenti di virile scontro fisico alla tecnica cinematografica dello slow-motion.

Nella casa di Don Capuleti l’atmosfera è bagnata da una luce calda. Qui il linguaggio shakespeariano si sgretola nel cantilenante vernacolo cosentino rivendicando una matrice identitaria, i corpi degli attori diventano cose (lampade, orologi a pendolo, cassettoni, tabernacolo) che si animano come in Bella e la Bestia, gli unici elementi scenici sono una porta che scandisce l’entrata e l’uscita dei personaggi e alcune sedie.

Uno spettacolo certamente corale con precise individualità straordinariamente congrue tra di loro che si mostrano in un linguaggio scenico articolato raggiungendo momenti di pura teatralità.

Macbeth (Lorenzo Richelmy) e Lady Macbeth (Stella Egitto) agiscono quasi come un unico personaggio rivelando una assoluta complementarietà nel crimine. Soltanto dopo il regicidio questa dualità si scioglie e ognuno torna ad essere quello che è: un uomo, Macbeth, debole e divorato dal rimorso e dalle paure che Lorenzo Richelmy colora di capricci infantili mentre Lady Macbeth, abbandonata la fermezza e la forza che si era imposte, somatizza il ricordo del delitto commesso nel sonnambulismo e nella pazzia suicida che Stella Egitto, allucinata fantasma di se stessa, offre al pubblico senza privarsi degli eccessi e dei deliri della follia, sempre morbosamente bella da vedere e da recitare.

Con disinvoltura e versatilità passa dall’abito rosso sangue della crudele Lady Macbeth al candido abito virginale di Giulietta. Dolce ma di una espressività inquieta, forte, sicura si rivela capace di trascinare nel suo erotismo ingenuo, ma non innocente, un Romeo che Francesco Gallelli carica di fanciullesco stupore. È l’Eros che vive senza età realizzando nella giovinezza la magnificenza della propria epifania e che, tragicamente, invoca la compagnia di Thanatos.

La Morte, dunque, come ground 0  in cui la follia e l’amore, che innervano la doppia narrazione, trovano la loro sintesi e la loro sublimazione.

Foto di Francesco Farina

Tutti gli interpreti, con bravura e una recitazione fresca, moderna, veloce recepiscono le idee-guida dello spettacolo e riescono a dare evidenza scenica ai loro personaggi: Richelmy/Macbeth vena il suo Mercuzio di antica spavalderia e nel finale, con un atto di straniamento, depone la corona di Macbeth e si lascia andare ad una riflessione sull’arte attorica, Ilaria Nocito passa dal ruolo di strega a quello di Balia debordante e materna. Così l’altra strega, Gabriella Spadafora, ci regala un Benvolio un po’ folletto, un po’ scugnizzo che si muove sul palco con agilità felina mentre Paolo Spinelli/Banquo tratteggia un padre Lorenzo di grande vivacità e pragmatismo. Paolo Mauro/Re Duncan spinge il suo Don Capuleti oltre le soglie dell’ironia avendo come valida spalla un Petruzzu (Malcolm nel Macbeth) a cui Emanuel Bianco cuce addosso una esilarante maschera da “scemo del villaggio”. Monna Capuleti, interpretata dalla strega Francesca Gariano, mantiene il suo aplomb di moglie ubbidiente e madre distante e Antonio Belmonte, nel doppio ruolo di Tebaldo/Macduff oscilla tra ira e orgoglio.

Tragedia notturna e misteriosa? Commedia lieve? Commedia con l’anima da tragedia? Un “divertimento” sul teatro elisabettiano? O ancora il disegno di un teatro invisibile, un itinerario d’autore? Comunque un pastiche, denso di citazioni, una commistione di generi in cui si ritrovano Commedia dell’Arte con la provocazione gioiosa delle maschere in cui risuona l’eco della tragedia, mimo e farsa, musical e rivista, grottesco e mood partenopeo, cornice naïf e scene eleganti, humour nero e comicità d’avanspettacolo con una moltitudine di registri che affida alla memoria individuale e collettiva l’arte del riconoscimento per ritrovare – spostate e condensate – figure assaporate in precedenza.

Lo sfasamento teatrale della narrazione scopre una tecnica di montaggio cinematografica. La regia di Mazzotta frammenta l’azione e sovrappone i piani narrativi fino a residuarne dei momenti di teatralità espansa individuando occasioni sceniche da recita a soggetto, monologhi vibranti, dialoghi carichi di tensione o di mordente comicità, azioni teatrali che danno alla rappresentazione una grande forza espressiva con movimenti di gruppo scatenati, liberi, ma comunque rispondenti ad una precisa geometria.

Il senso dello spettacolo va ben oltre i “testi”, si ravvisa forse qualche ristagno e un eccesso di scansioni ma l’intera operazione si pone come momento di ricerca teatrale, con un esito di grande creatività scenica e il teatro ritorna ad essere il luogo in cui l’illusione riacquista il suo significato etimologico: “in lusio” ovvero “nel gioco”.

[Immagine di copertina: foto di Francesco Farina]



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti