Arti Performative Focus

L’acqua che brucia i miti: il colonialismo secondo Frosini/Timpano

Dalila D'Amico

Al Romaeuropa Festival, l’ultimo lavoro della coppia formata da Daniele Timpano ed Elvira Forsini pone in essere delle questioni lucide e fondamentali che riguardano i preconcetti attraverso i quali parliamo e ci relazioniamo con l’altro

Elvira: «Senti ma tu che cosa pensi, no, quando sei al bar, in Piazzetta, da buon finto proletario radical chic artista con le Birkenstock, e ti fai l’aperitivo, e intanto passano dieci, quindici di questi che vendono l’accendino, il carica batterie […] No, perché io mi innervosisco […] e poi mi viene una cosa, una cosa qua che mi sale, e poi mi sale e insomma, pazzesco, mi viene voglia di dargli tante botte, e poi ecco poi mi sento una merda, una schifezza […] E insomma, io a questo qua non lo conosco, ma perché dovrei sentirmi male?». Daniele: «È tutta colpa del colonialismo».

Così, con questa riflessione inizia Acqua di colonia, l’ultimo spettacolo della coppia Frosini/Timpano, andato in scena dal 18 al 20 novembre scorso, nell’ambito del Romaeuropa Festival.

Sin dal primo istante lo spettacolo dichiara il proprio intento: guardare il presente per capire il passato, o spiare il passato per motivare il presente, in fondo i due processi agli occhi della compagnia sono il risvolto della stessa medaglia.

Con la vena graffiante e sorniona che contraddistingue la loro drammaturgia, il duo decide di far saltare a uno a uno gli stereotipi che ci incastrano nella lettura dell’altro, un vizio radicato e disciplinato sul finire dell’Ottocento, oggi quanto mai manifesto. La partita in gioco è dunque attualissima: comprendere la xenofobia dilagante del presente attraverso la demistificazione di luoghi comuni annidati nel racconto della Storia. Una sfida pericolosa proprio perché inerpicata in una problematica troppo calda e vicina, ma che Frosini/Timpano riesce a vincere senza scadere nel paternalismo bacchettone o nel lirismo politically correct annusato di recente in altre prove di variazione sullo stesso tema.

Lo spettacolo si divide in due parti: nella prima, lo Zibaldino africano, i due attori mettono sotto scacco il tema del colonialismo interrogandosi proprio sulle “strategie” sceniche e narrative da adottare al fine di non percorrere strade già battute, e allo stesso tempo fornire delle nozioni di base per “civilizzare” lo spettatore. Già, perché il presupposto di fondo della coppia è che «non si sa niente» su questa fase storica. Come dunque “addomesticare” gli spettatori alla comprensione senza imporgli una visione dall’alto o ridurre lo spettacolo in un manuale didattico? Il dispositivo meta-teatrale più che forma narrativa si rovescia in contenuto: il noi/loro su cui i macro-discorsi sull’altro trovano ragione viene ritorto verso lo spettatore italiano. Il colonialismo diventa principio costruttivo del rapporto tra scena e platea: noi attori sappiamo più di voi spettatori, per cui vi forniamo gli strumenti di base per uscire dalla vostra condizione di inferiorità. La coppia arriva al cuore del problema senza affrontarlo direttamente, lasciandoci intendere quanto la forma sia responsabile dei significati che ancoriamo ai fenomeni e alle persone. Questo paradigma in tutta la prima parte dello spettacolo è oggettivato dalla presenza muta in scena di Luisanna Arias, una “donna di colore”, diremmo, per “restare cauti”. Il soggetto in questione, non è mai interpellato ne avvertito dagli attori, proprio a puntellare quanto, come Foucault insegna, ogni discorso sull’altro, in assenza dell’altro sia contemporaneamente costruzione dell’altro. Lo zibaldino africano passa dunque in rassegna forme e strutture in cui le nostre interpretazioni sono incastrate. Meccanismi che la coppia fa inceppare senza fornire né risposte né giudizi sul nostro ruolo nella grammatica di orchestrazione delle altre culture.

Nella seconda parte dello spettacolo, uno alla volta, questi contenitori vuoti vengono ingozzati da dati storiografici e icone pop attraverso le quali tratteniamo le scorie residue di un racconto da riscrivere. Uno sciorinare di elenchi aizzati da nomi, luoghi e date che scandiscono il ritmo serrato della singolare drammaturgia di Frosini/Timpano. Il secondo momento di Acqua di colonia procede per gag e messe a fuoco di un’Africa Orientale distorta dalle lenti correttive che ci sono state storicamente fornite per interpretarla. Ancora una volta la forma risulta determinante: i due attori, infatti, si fanno interpreti ed esegeti di passi storici e immagini mass-mediatiche che li hanno naturalizzati, scegliendo di affidarsi all’estetica dell’avanspettacolo, caratterizzante gran parte degli anni raccontati. Da Topolino in Abissinia di Ferdinando Crivelli al monologo di Meryl Streep in La mia Africa (1985), dalla canzone Faccetta nera di Carlo Buti, inno di propaganda fascista sugli interventi in Etiopia, all’Aida che Giuseppe Verdi compose per l’inaugurazione del nuovo teatro de Il Cairo, Elvira Frosini e Daniele Timpano ci mostrano come la sopraffazione di terre lontane sia stata interiorizzata mediante note e parole di larga diffusione, controbilanciate da un lirismo esotizzante di “candori barbari” che in fondo non conosciamo. Su questa stratificazione di significanti e stereotipi i due appuntano agghiaccianti ragguagli storici, del passato e del presente. Senza soluzione di continuità, le bombe di iprite sganciate dal maresciallo Rudolfo Graziani esplodono nel racconto di Indro Montanelli sulla moglie, africana e dodicenne, e trascinano il loro olezzo, nei temi scolastici sui migranti dei bambini di oggi e nei mari inquinati da corpi morti per aver avuto speranza, che bagnano le nostre vacanze di sensi di colpa.

Come quelle bombe, lo spettacolo rade al suolo uno per uno i miti che rivestono il colonialismo. Primo fra tutti, quello che ci fa credere che siano le grandi potenze europee, della Francia o dell’Inghilterra le maggiori responsabili del fenomeno: «Noi in soli sessant’anni abbiamo recuperato tutto quello che loro hanno fatto per secoli», dicono gli attori. Un’altra semplificazione storica cui siamo soliti affidarci, ci fanno notare, è quella che pone come unico capro espiatorio il fascismo (che, “si sa”, è stato un piccolo neo della Storia italiana); e invece no, lo spettacolo denuncia quanto il fenomeno del colonialismo italiano affondi le radici molto prima che il potere dittatoriale prendesse il sopravvento. In ultimo, questa forza che fa razzia di tutte le semplificazioni storiche e le rappresentazioni mitizzanti non risparmia neanche Pasolini magistralmente “incorporato” da Elvira Frosini. Il rapporto tra il poeta regista e Ninetto diventa, infatti, la metafora della nostra attitudine salvifica e moralista nei confronti «dei popoli da civilizzare». Ma il riferimento è ancora più sottile: il Pasolini chiamato in causa è quello de Il padre selvaggio o di Appunti per un’Orestiade Africana, dove il tentativo di strappare l’Africa dai retaggi fascisti e colonialisti si traduce nella mitizzazione di una forza arcaica e primitiva e in una poetica visione a sua volta esotizzante del continente. Acqua di Colonia denuncia quanto sia il discorso ospitale che quello razzista si configurino come l’accaparrarsi di una delega di rappresentanza e finiscano per perpetuare una dogmatica costruzione dell’altro in sua assenza; concetto, del resto, fissato nel monologo finale di un peluche, quell’”altro” che finalmente prende parola per sé, salvo poi farlo tramite una voce pre-registrata: «dovreste pagarmi i diritti e tutte le pose in arretrato». Dal circolo vizioso, dunque, non si esce: non ci troviamo che di fronte a rappresentazioni di rappresentazioni di un’irriducibile alterità che non riusciamo mai ad ascoltare. Sia l’uscita di scena silenziosa dell’ospite Luisanna Arias, che le battute finali del peluche, si fanno immagine di un’identità sempre mediata e reificata da un “noi”.

Per chi volesse perdersi nella stratificata lettura dei falli concettuali attivati da Frosini/Timpano ricordiamo infine che il testo dello spettacolo è disponibile nell’omonimo libro edito da Cuepress.


Dettagli

  • Titolo originale: Acqua di colonia
  • Regia: Elvira Frosini, Daniele Timpano
  • Anno di Uscita: 2016
  • Costumi: Alessandra Muschella, Daniela De Blasio
  • Produzione: Romaeuropa Festival, Teatro della Tosse, Accademia degli Artefatti Con il sostegno di Armunia Festival Inequilibrio
  • Cast: Elvira Frosini, Daniele Timpano
  • Altro: Si ringrazia C.R.A.F.T. Centro Ricerca Arte Formazione Teatro


Altro

  • Testo: Elvira Frosini, Daniele Timpano
  • Consulenza: Igiaba Scego
  • Voce del bambino Unicef: Sandro Lombardi
  • Aiuto regia, Drammaturgia: Francesca Blancato
  • Disegno Luci: Omar Scala
  • Progetto grafico: © Valentina Pastorino
  • Ospiti: venerdì 18 Ruth Gebresus --- sabato 19 Luisanna Arias --- domenica 20 Queenia Pereira De Oliveira
  • Visto il: Sabato, 19 Novembre 2016
  • Visto al: Teatro Biblioteca Quarticciolo, Roma, Romaeuropa Festival

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