Arti Performative

Compagnia Instabili Vaganti // Megalopolis #43

Dalila D'Amico

Per la rassegna “A Roma! A Roma!”, in scena la performance che narra la drammatica vicenda dei 43 studenti “desaparecidos” di Iguala, in Messico, bruciati vivi e sepolti in una fossa comune per mano del narco-governo.


 

Il 17 marzo ha debuttato al Teatro Due Roma Megalopolis #43, della compagnia Instabili Vaganti. La performance è “un atto di protesta che si unisce a un Azione Globale” avviata dalla compagnia con il progetto internazionale MEGALOPOLIS, ricerca sul legame tra interculturalità e globalizzazione, a partire dal recupero della memoria di luoghi e persone appartenenti alle più grandi metropoli del mondo. Già l’hashtag del titolo sancisce l’intento dell’azione di strabordare aldilà della scena, tra le maglie della rete e le strade per far eco al grido nato nelle piazze del Messico: Vivos se los llevaron y vivos los queremos!. Ci troviamo dunque di fronte ad uno spettacolo che non chiede solo di essere guardato, ma invoca l’azione, pretende la riflessione, si propone come megafono per i 43 desaparecidos di Ayotzinapa scomparsi durante le proteste del 26 settembre del 2014 a Iguala. 

Sul palcoscenico si susseguono i volti di queste vittime del narco-governo, proiettati sui corpi dei performer e sulle pareti: ogni immagine ha un nome proprio di persona e al contempo è icona di un popolo che chiede giustizia.

Teatro impegnato quindi, peccato che non si scagli come un proiettile sugli spettatori e perda ogni tentativo di suscitare re-azione, per lo meno, la mia: per tutta la durata dello spettacolo mi sono chiesta se non fossi stata assalita dalla mania del critico di ritagliare forme dai contenuti, di aver perso quella carica sovversiva che a vent’anni mi faceva disprezzare ogni vuoto compiacimento estetico che non precipitasse nell’azione militante. Uscita dalla sala ho trovato la risposta nella parola “estetica” o meglio est-etica, dal greco “percepire attraverso la mediazione del senso”. Non si tratta di mettere i lustrini ad un contenuto agghiacciante, ma di agghiacciare, di far “sentire” piuttosto che spiegare, l’ardore di un impegno. E allora sì, la forma è importante tanto quanto il contenuto, anzi la forma ha la responsabilità di restituire con forza dirompente il contenuto. 

C’è un sottile crimine infatti tra – parafrasando Godard – fare spettacoli politici e farli politicamente.

La performance della compagnia Instabili Vaganti fallisce nel tentativo di coniugare lo slogan di piazza a alla “poesia in azione”. Le azioni poetiche sono potenziate da proiezioni sui corpi intercettate da un tulle che ne sfasa l’aderenza alla carne ad indicare la volontà di avvicinare urgenze individuali alla collettività. Se queste arrivano irruenti e spedite perché la protesta si “incarna” nella fisicità dei performer, si agita sotto la loro pelle, trasborda dal loro sudore, troppo deboli e didascalici risultano quelli che raccontano l’accaduto e descrivono la rabbia piuttosto che suscitarla.

E allora torno a delle pagine che lessi qualche anno fa di Jodorowsky, premettendo che sono un critico e non un regista e, soprattutto, non sono Jodorowsky:

 

«L’atto poetico deve sempre essere positivo, richiede la creazione, non la distruzione. A tal riguardo un noto haiku giapponese recita: 

 Una farfalla

 le strappo le ali e guarda: un peperoncino! (errato). 

 

 L’atto poetico dovrebbe essere: 

  Un peperoncino

 gli metto le ali  e guarda: una farfalla!»

 

 


Dettagli

  • Titolo originale: Megalopolis #43

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