Arti Performative Dialoghi

Intervista a Marta Cuscunà, tra i vincitori del Premio Rete Critica 2017

Dalila D'Amico

Marta Cuscunà si forma a Prima del Teatro – Scuola Europea per l’Arte dell’Attore, dove incontra Joan Baixas, con cui approfondisce i linguaggi del teatro visuale e José Sanchis Sinisterra, grazie al quale inizia a studiare drammaturgia. Dal 2009 fa parte del progetto Fies Factory di Centrale Fies e in soli dieci anni di carriera ha già collezionato diversi importanti premi: nel 2013 il Premio Franco Enriquez e quello Città Impresa, nel 2012 il Premio Last Seen per il miglior spettacolo dell’anno, nel 2009 Premio Scenario per Ustica, e quest’anno il Premio Rete Critica con lo spettacolo Sorry, boys. Abbiamo deciso di incontrarla per farle qualche domanda.

Sei stata appena premiata da Rete Critica per il tuo spettacolo Sorry, boys. Ce ne parleresti un po’?

Sorry, boys è l’ultimo capitolo della trilogia sulle Resistenze femminili. È per me la necessità di parlare di uguaglianza e parità di diritti tra uomini e donne non unicamente dal punto di vista femminile. Gli altri due lavori della trilogia, È bello vivere liberi! e La semplicità ingannata ruotano intorno a figure di donne che si sono scontrate con gli stereotipi che la società imponeva alle donne e hanno agito per cambiarli. Sorry, boys si interroga su quali siano gli stereotipi che la società patriarcale impone agli uomini e su come essi, al pari di quelli femminili, siano una forte limitazione nelle relazioni, nell’affettività, nella sessualità e nella realizzazione autentica di sé.

Tutti i tuoi spettacoli sono caratterizzati da un legame con la Storia e dall’attenzione a urgenti problematiche “politiche”. Puoi raccontarci il processo di studio sulle fonti che precede la messa in scena?

Di solito procedo in due fasi. Nella prima, mi concentro unicamente sulla storia che mi interessa, cercando di approfondirla dettagliatamente attraverso fonti più dirette possibili da cui emerga la voce autentica dei protagonisti: testimoni viventi (quando possibile), diari, lettere, verbali processuali, ecc. Nella seconda fase procedo “per accumulazione”, cercando materiale di ogni genere e di qualsiasi epoca, riguardo al tema principale che la storia contiene e che a me interessa affrontare. In questa fase, la ricerca spazia da opere letterarie a ricerche iconografiche, da studi statistici a ricerche sonore, eccetera. In sostanza, prima di iniziare a scrivere la drammaturgia, cerco di crearmi un immaginario più vasto possibile, a cui applicare i protocolli drammaturgici di José Sanchis Sinisterra, che uso da sempre per scrivere i miei spettacoli.

Allo studio sulle fonti si affianca poi quello della messa in scena, che ti coinvolge sia come “artigiana” che come performer. In che modo la tematica che di volta in volta intendi raccontare si riflette sulla creazione degli oggetti e i pupazzi che utilizzi?

Nell’ideazione dei pupazzi è sempre la storia che mi guida e che molto spesso ha già dentro tutta una serie di “suggerimenti”. Le fonti principali de La semplicità ingannata, per esempio, sono le opere letterarie di Arcangela Tarabotti, in cui l’autrice paragona le monache forzate agli uccellini presi nel vischio. L’immagine mi ha colpito moltissimo e per analogia mi ha portato ad associarla al corto di animazione prodotto dalla Pixar e diretto da Ralph Eggleston For the Birds, sulle disavventure di uno stormo di passeri appollaiati su un filo. Così ho immaginato uno “stormo” di suore vincolate a un “filo” claustrale.
Poi subentrano le necessità logistiche, per esempio, il fatto che i pupazzi debbano essere autoportanti e espressivi anche quando non li manipolo, che i comandi della movimentazione siano di facile accessibilità in modo da poter sostenere la rapidità dei dialoghi. Il procedimento è stato lo stesso per tutti gli spettacoli e la collaborazione con le scenografe ha sempre previsto la progettazione e la costruzione di svariati prototipi, prima di trovare la versione definitiva dei pupazzi. Le vere artigiane sono loro!

Foto di Alessandro Sala

La tua attenzione agli aspetti plastici e dinamici dei pupazzi ti ha portata di recente a collaborare con l’azienda Igus Italia. Ci parleresti di questa collaborazione?

È stata un’idea di Paola Villani, che per Sorry, boys ha progettato e realizzato il sistema di movimentazione delle teste animatroniche basato su alcune tecnologie comunemente applicate al mondo degli effetti speciali per il cinema, ma realizzato, nel nostro caso, attraverso materiali comuni e di facile reperibilità come cavi e freni di biciclette. Per il prossimo spettacolo, visto che la scelta della movimentazione analogica permette di mettere in deciso risalto la funzionalità e l’efficienza della componentistica utilizzata, Paola ha proposto di utilizzare alcune tecnologie a cavo comunemente applicate all’industria. Il suo studio ingegneristico dei materiali, ha consentito di avviare un dialogo con gli ingegneri della Igus Italia Innovazione con i tecnopolimeri a cui sono stati presentati i disegni tecnici dei nuovi pupazzi per capire quali potessero essere i componenti più adatti alla realizzazione del progetto. Su questa linea e grazie al sostegno del Teatro Stabile di Bolzano, abbiamo avviato un progetto con il NOI Techpark, il nuovo parco tecnologico di Bolzano, dove presenteremo una tre giorni di performance-lecture sulla ricerca teorica e ingegneristica che sta alla base dello spettacolo. Un making of che svelerà tutti i retroscena tecnologici dell’opera artistica. La nostra collaborazione con Igus Italia e il NOI Techpark, si inserisce in un’ottica di sinergia tra arte e tecnologia, tra impresa culturale (Centrale Fies) e aziende, grazie alla quale l’innovazione e la ricerca portano benefici e crescita a entrambi i settori.

Quanto il mettere le mani sui tuoi compagni di scena ricade poi sul tuo lavoro vocale e performativo nella loro “caratterizzazione”?

Moltissimo, e influisce su tutti gli aspetti della creazione: la prima versione della drammaturgia, per esempio, scritta prima di averli tra le mani, viene sempre ribaltata perché in quella fase scrivo un copione per “personaggi”. Poi invece, quando incontro i pupazzi, riscrivo le scene e li interpreto basandomi sui dettagli del loro aspetto, sulle caratteristiche specifiche di ognuno e su tutti gli aspetti che non avevo immaginato prima, ma che in quella fase ogni pupazzo mi mostra. Poi, la drammaturgia diventa il copione della manovratrice perché viene plasmata dal fatto che i pupazzi non sono animati da altrettanti attori con il physique du rôle corrispondente al personaggio-pupazzo, ma da un’unica attrice che vocalmente e fisicamente ha dei limiti…
Anche il lavoro vocale e la coreografia dei pupazzi sono possibili sempre e soltanto quando posso manovrarli. Inizialmente costruisco le scene davanti allo specchio, poi, mi alleno a eseguire le scene senza la visione frontale ma appoggiandomi alla memoria del mio corpo (quanto deve ruotare la mia mano per dare l’illusione che il personaggio stia guardando quel punto preciso della scena?), e allo sguardo esterno di Marco Rogante che mi ha assistito nella realizzazione di tutti i miei lavori. La versione definitiva della drammaturgia, quindi, contiene anche la coreografia della manipolazione.

Da dove nasce la scelta di associare il teatro di figura a tematiche forti come le resistenze femminili e antifasciste?

Nasce dall’imprinting che ho avuto con Joan Baixas, il regista catalano che mi ha preso a bottega a Barcellona e mi ha insegnato quello che so fare con i pupazzi. In particolare, il primo spettacolo cui mi ha invitato a partecipare, Merma Neverdies, era una ripresa dello spettacolo che aveva realizzato alla fine degli anni ’70 con Joan Mirò. I pupazzi dello spettacolo erano una versione grottesca del dittatore Franco e della sua corte, per questo, durante la dittatura, Joan e gli attori della compagnia dovevano andare in scena clandestinamente, avvisando gli spettatori solo attraverso un cauto passaparola. Durante le rappresentazioni, se arrivava la polizia, attori e spettatori dovevano disperdersi per non farsi arrestare. Joan Baixas mi ha sempre trasmesso la convinzione che i pupazzi potessero essere un modo efficacie per deridere, criticare il potere e per raccontare quella soglia in cui si trovano a passare gli esseri umani quando vengono privati della libertà e devono scegliere se tentare di ricattarsi o lasciarsi vivere come marionette in mani altrui.

A marzo sarai in scena per la prima volta in Campania con La semplicità ingannata all’interno della stagione Mutaverso Teatro di Salerno. Vuoi spendere due parole per questa giovane realtà?

Vincenzo Albano cercava da un po’ di anni di portare i miei lavori in Campania e ci è riuscito avviando un prezioso dialogo con Interno5, che mi ospiterà a Napoli nei giorni successivi.
L’impatto economico di questa operazione non era poca cosa, eppure queste due giovani realtà, ottimizzando le risorse, sono riuscite a garantirmi la copertura dei cachet delle repliche. Il fatto che la mia piccola tournée campana sia nata dalla collaborazione di due realtà indipendenti, fuori dai circuiti ufficiali o dai sistemi di scambio, credo sia un’eccezione che merita di essere valorizzata.
Mutaverso Teatro e Interno
5, sono riuscite a fare insieme quello che teatri ben più grandi e strutturati non hanno avuto interesse a realizzare: è un buon segno!

Immagine di copertina di Alessandro Sala



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti