Arti Performative

Enzo Cosimi // Fear Party

Renata Savo

L’immaginario collettivo intorno alla paura, in ‘Fear Party’, prima tappa della trilogia “Sulle passioni dell’anima” di Enzo Cosimi vista al Teatro India di Roma, avvicina anche un pubblico lontano dai palcoscenici di danza.


 

Cosa sono un uomo e una donna? Cosa possono essere? Due esseri viventi, due solitudini, una coppia, due strumenti a disposizione del coreografo, in questo caso Enzo Cosimi, per un lavoro di ricostruzione di atmosfere, di immagini che condensano un immaginario, schegge di memoria, pezzi di subconscio. È di paura che si parla, o meglio, è la paura che si guarda. Guardare in faccia alla realtà, espressione idiomatica assai diffusa, rappresenta già un atto di incoraggiamento verso se stessi che muove dalla paura di volgere gli occhi e di comprendere l’oggettività del reale. Ma cosa accade se sono la danza e il teatro ad attirare lo sguardo, a tradurre la paura in immagini per lasciarsi guardare?

Enzo Cosimi ci offre la visione di uno spazio bianco agito da una donna dalle fattezze androgine e da un uomo dalla corporatura sana, anche se non propriamente da classico danzatore; entrambi indossano shorts neri che ne neutralizzano il sesso. Il bianco asettico porta indirettamente lo spettatore all’idea di una pagina vuota (non è forse pure il vuoto a farci paura?) o di un ospedale; i danzatori sono macchiati, sul corpo portano il trucco di ferite sanguinanti. A terra, in proscenio, un filo di colore rosso sangue. Braccia e gambe si muovono talvolta all’unisono, altre volte il moto è contrastante ed energico. I due sembrano contemporaneamente amarsi e lottare, scontrarsi e abbracciarsi, ripudiarsi e subire attrazione. Forse perché c’è sempre meno differenza tra amore e violenza. La paura di amare, spesso, coincide proprio con la paura di farsi del male.

Il corpo si direbbe il vero protagonista di questo spettacolo che si dispiega in una sovrapposizione di scritture diverse, dal suono alla luce, all’immagine, alla scena; esso entra in relazione con tutti gli elementi insieme e produce visioni. In una di queste, un riflettore colora di verde la pelle, la carne diviene spettro mostruoso, luce riflessa bagnata nel colore della malattia, il verde dell’invidia e del disgusto. Se inizialmente la fatica dei movimenti viene dissimulata e i danzatori sembrano muoversi a ralenti come in un grembo materno o immersi in un liquido, più avanti sono il respiro della fatica e il suono doloroso della pelle che striscia sul pavimento a comporre la drammaturgia; la quale si avvale, insieme ai corpi, dell’utilizzo teatrale di oggetti: un paio di stivali, un secchio, una sedia.  

Le coreografie di Enzo Cosimi attribuiscono sempre al linguaggio coreutico una matrice fortemente teatrale (e quindi intrinsecamente politica); ne è sintomo un certo simbolismo, visivo e sonoro. I suoni appartengono a un paesaggio selvaggio, ma sono anche quelli artificiali dei fumi, che esalando dai lati attraverso l’apposito strumento scenico rinviano al contesto in cui ci troviamo, il teatro, mentre in termini visivi viene evocato l’immaginario del cinema zombi. È la natura a farci paura o avere paura è parte integrante della nostra natura?

Questi due zombi, più vivi che morti a dire il vero, li vediamo disorientati; immobili, si guardano intorno, indicano dei punti nello spazio. Sembrano il primo uomo e la prima donna che danno un nome alle cose e incrociano sorpresi gli sguardi. Li vediamo spingersi e poi farsi spazio, a forza, l’uno fra le braccia altrui, costretti a vivere condividendo lo stesso posto nel mondo con il timore di essere ciò che sono, curandosi di nascondere il sesso, risollevando i pantaloncini che durante lo scontro restano trattenuti tra le braccia dell’altro intorno al bacino.

La forza di Fear Party consiste nella sua immediatezza: Enzo Cosimi trasforma la danza in immagini parlanti, traduce le sensazioni emotive in impressioni afferrabili anche da un pubblico non avvezzo alla frequentazione dei palcoscenici e, soprattutto, dei palcoscenici di danza.

L’ultima immagine è una metafora per il viaggio, la transitoria riconciliazione di uno stato emotivo: due trenini su una pista circolare, condannati a girare intorno allo stesso centro e non incontrarsi mai. Where Are We Now? di David Bowie si ascolta in sottofondo fino agli applausi, a ricordarci che finché esistiamo non dobbiamo aver paura. Perché basterebbe un mutamento di prospettiva per avvicinare ciò che è lontano. Perché se pure noi e l’altro vivessimo ai poli opposti del mondo, osservandoci dall’alto, allargando il campo visivo, potremmo comprenderci e immaginare che, pur restando soli, stiamo ancora correndo insieme.

 


Dettagli

  • Titolo originale: Fear Party

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