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Elena Arvigo, eroina moderna con la sua Andromaca ne “Le Troiane” diretto da Muriel-Mayette-Holtz

Roberta Leo

Elena Arvigo è in scena fino al 23 giugno per la prima volta al Teatro greco di Siracusa nel ruolo di Andromaca ne Le Troiane di Euripide, con la regia di Muriel Mayette-Holtz. In questa intervista racconta l’iconico conflitto della donna greca immersa tra la forza quasi androgina, la dolcezza e femminilità che animano il suo personaggio. Interprete principale di una delle tragedie più strazianti del dramma antico, ci dona un vero e proprio canto fatto di voce e di corpo, animando la parola e il gesto di una sofferenza che è in realtà un inno alla vita. In scena anche Massimo Cimaglia, Francesca Ciocchetti, Maddalena Crippa, Elena Polic Greco, Clara Galante, Paolo Rossi, Marial Bajma Riva, Riccardo Scalia, Graziano Piazza, Viola Graziosi, Fiammetta Poidomani. Dopo quest’avventura siracusana, sarà invece a Napoli, dove si confronterà con Non domandarmi di me, Marta mia di Katia Ippaso con la regia di Arturo Armone Caruso, spettacolo dedicato alla figura di Marta Abba e all’ultima lettera che Pirandello le rivolse, che debutterà al Napoli Teatro Festival Italia il 12 e il 13 luglio.

Hai smesso a un certo punto di fare la danzatrice per fare l’attrice. Che cosa consiglieresti a chi si trova ad abbandonare un sogno per abbracciarne un altro? 

Ero giovanissima e la danza era il mio talento più evidente. Ma forse non era quella la mia strada. A ventuno anni mi trasferii a Londra per perfezionarmi presso il London Studio Centre ma non ero poi tanto accanita su quella carriera al contrario di tanti giovani di oggi. Amavo la danza classica ma i miei non mi avevano permesso di studiare alla Scala di Milano. Fu un treno che persi perché all’epoca si guardava alla danza come ad un qualcosa di inaffidabile. A Londra guardavo molti spettacoli di teatro e seguivo corsi universitari di psicologia e recitazione alla Goldsmith University. Tornata in Italia feci il provino al Piccolo Teatro di Milano e da lì è iniziata la carriera di attrice. Durante la formazione consiglio sempre ai ragazzi di non accanirsi troppo, perché la vita va lasciata fare; è giusto studiare ma poi bisogna accettare il destino. Io non ho fatto la ballerina ma poi ho fatto l’attrice. È stato come far uscire un qualcosa dalla porta per poi vederlo rientrare dalla finestra. Non è detto che il proprio sogno non possa manifestarsi in altre forme; a volte bisogna semplicemente “arrendersi” alla vita, nel senso positivo del termine e non pretendere di avere sempre il controllo sulle cose.

Basta pensare alle prime corifee per comprendere quanto la danza sia fin dall’antichità una componente essenziale del teatro greco. Quanto è stata importante nel tuo lavoro la drammaturgia del movimento?
Per me la voce è corpo, ma la partitura fisica è ciò che conduce tutto in teatro. Amo pensare al testo come a una parola evocatrice, ultimo sintomo della narrazione. La parola è pensiero verbalizzato, dà un nome alle cose. Quando sei in scena anche toccare oggetti, corpi, indicarli, sentirli è fondamentale. Non riesco a pensare a un teatro di parola o ad attori di parola che non siano anche fisici, in movimento. Più che di interpretazione, io parlerei, in senso più globale, di “incarnazione” della parola. Nella mia Andromaca la fisicità è importantissima. In quasi tutta la scena tengo in braccio un bambino. Viene evidenziato molto il contatto con lui, e accarezzo le donne in quanto loro regina benevola, cercando di dare corpo a ogni parola.

Che tipo di donna è la “tua” Andromaca?
Ho cercato di dare vita ad Andromaca pensando soprattutto all’etimologia del suo nome, che in greco significa “donna che combatte come un uomo” ma anche “donna che combatte contro gli uomini”. Questa del nome è una diatriba che, pur essendo rimasta irrisolta, denota una grande forza, ha in sé la μάχη (”màke”), cioè la battaglia, nonostante resti una donna che la mitologia ci dipinge come simbolo di un universo femminile, della dolcezza, dell’amore coniugale. Il testo in un primo momento la lega sempre a degli uomini indicandola come “moglie di Ettore”, “madre di Astianatte”. Le donne in Grecia non godevano di grande libertà ma questa costrizione era in realtà una loro scelta (in un passo Andromaca confessa “restavo sempre in casa per non dare adito a pettegolezzi”). Non vivevano momenti  di pace, erano donne afflitte dalle guerre. Ho cercato di far risuonare nella mia Andromaca una donna innamorata, l’ho immaginata come innamorata di un antico Che Guevara. Perché Ettore in fondo è l’eroe buono, ha un animo nobile, incarna il kalòs kai agatòs, cioè il bello e buono, è ricco, colto e si batte senza riserve per i suoi valori. Anche se Andromaca viene inizialmente rapita e portata a Troia per sposarlo, il loro incontro sotto le mura è un vero e proprio incontro d’amore. Ho cercato di far risuonare in lei una forza che viene dal non esimersi dall’affrontare le disgrazie mantenendo, però, quella dolcezza che sempre contraddistingue la sua femminilità. È una forza che sicuramente scaturisce dall’amore ma ha sicuramente una grande forza vitale intrinseca. Andromaca non si lamenta mai delle sue disgrazie, del suo dolore, non cade mai nel patetico. Non crolla neppure quando perde suo figlio, non si toglie la vita per non sentire più il dolore ma combatte, non molla mai, cade e si rialza sempre e comunque.

Cosa ti ha spinto ad accostarti alla tematica del dualismo donne/guerra che è una costante anche in molti dei tuoi lavori precedenti?

Amo il teatro perché lo reputo un mezzo per dar voce a chi di solito non ne ha. Di conseguenza ho pensato alle donne, ho cercato di far prendere loro la parola. Volevo fare un lavoro sul femminile. Mi sono resa conto che le donne che mi piacevano e su cui volevo fare spettacoli erano tutte unite dal filo rosso della guerra. Si pensi alla giornalista russa Anna Stepanovna Politkovskaja, alla poetessa Marina Cvetaeva, alla scrittrice e regista Marguerite Duras. Piuttosto che mettere in scena Virginia Woolf o Silvia Plaschke, ugualmente immense, nei miei lavori alla fine è prevalso l’interesse verso queste personalità. È stata una scelta casuale, o meglio, istintiva, un po’ come quando si cena sempre nello stesso ristorante perché lì ti senti a tuo agio. Di solito frequento persone e autori perché sento che c’è un’attenzione particolare a ciò che accade all’esterno. Ci sono artiste più occupate in un’indagine interiore piuttosto che sociopolitica o poetica. Le donne che si occupano più del sé e dell’intimo possono comunque far scaturire una critica e un’analisi socio-borghese, ma fondamentalmente non vivono una dimensione globale, non s’immergono nei viaggi della mente e del mondo. Per me invece la cosa bella è lavorare con l’atlante alla mano.

Dopo “Le Troiane” il 12 e il 13 luglio sarai protagonista al Napoli Teatro Festival Italia, in prima nazionale, con “Non domandarmi di me, Marta mia” di Katia Ippaso con la regia di Arturo Armone Caruso, spettacolo dedicato alla figura di Marta Abba e all’ultima lettera che Pirandello le rivolse. Ci puoi dire qualcosa sul tuo personaggio?

Lo andrò a scoprire tra pochissimo, con l’inizio delle prove. Sicuramente Marta Abba esiste come donna in quanto musa di Pirandello che attraverso le sue meravigliose lettere alla donna si rivela totalmente umano, fragile e innamorato. Lei è un’ispirazione, dopo la sua morte divenne una sorta di vedova e lo ricordò per tanti anni. Anche la sua carriera fu stranamente legata alla figura dell’intellettuale siciliano. Sarà un personaggio interessante da scoprire.



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