Arti Performative

Drodesera. Parte IV

Franco Cappuccio

 

Archiviata la tre giorni del concorso Live Works, vinto dalla serba Vanja Smiljanic, la programmazione del Drodesera 2015 riprende con tre giorni dedicati all’ospitalità di spettacoli che, pur presentando in sé momenti di sperimentazione ed innovazione, rappresentano progetti finiti e compiuti e con una forma ben definita tali da poter, per la maggior parte di loro, circuitare come spettacoli di compagnia.


 

La partenza del quarto giorno del Drodesera non è brillante: il primo spettacolo in programma è infatti quello realizzato dal collettivo Curandi Katz, italo canadese, che propone un’azione performativa in collaborazione con la giapponese Masako Matsushita dal titolo “Resist Everywhere, Masako”. Lo spettacolo si compone di 198 metodi di azione non violenta (ad esempio “Cantare” oppure “Indossare oggetti simbolici”) spiegati da una voce fuori campo, che vengono tradotti in azioni performative danzate attraverso tecniche improvvisative. Ciò che colpisce lo spettacolo è innanzitutto la scelta dello spazio di fruizione: per venti spettatori alla volta per una durata di 30’, la performance viene visualizzata da una sorta di piccionaia, sopraelevata rispetto al piano dove si svolge lo spettacolo, che permette il distacco tra pubblico e performer, dando così l’impressione di spiare un lavoro che va avanti in maniera predeterminata a prescindere dalla presenza o meno del pubblico. Sensazione aumentata dall’impossibilità di vedere tutte le azioni performative, ma, dati i tempi, soltanto una selezione casuale di questi, rendendo così l’azione a metà tra l’installazione e l’azione performativa in sé. Le dote nolenti però, sono nell’azione stessa: i metodi non vengono sviluppati in azioni performative vere e proprie, ma in una serie di improvvisazioni che sembrano essere completamente scollate da essi; è forte la sensazione di vedere una traccia che non è stata sviluppata, e nonostante l’indiscussa bravura tecnica della performer giapponese, il tutto da l’impressione di poca omogeneità e di senso dello spettacolo poco riuscito.

Si chiama decisamente registro con il secondo spettacolo in programma, ovvero “Squares do not (normally) appear in nature” del collettivo OHT – Office for a Human Theatre, guidato da Filippo Andreatta, che cura anche la regia degli spettacoli. Ci troviamo qui di fronte ad un lavoro complesso che riesce benissimo nell’idea di creare un’azione performativa senza performer. Ci troviamo di fronte ad un enorme cubo a metà tra l’installazione e la macchina, complessa costruzione scenica meccanizzata che, attraverso artifici visivi e sonori, riesce a tratteggiare con estrema delicatezza la vita di Josef Albers, uno degli storici membri del Bauhaus. Attraverso registrazioni sonore personali incise durante la residenza dell’autore alla Fondazione Albers negli USA, estramemente lucide e in grado di dare forza in più all’impianto narrativo, ponendosi questioni di un’efficacia anche più forte e viva delle parole dello stesso Albers tratte da registrazioni e video del passato, colpisce la maestria con cui l’installazione riesce a giocare con luce, vetro, fonts ed immagini per creare un corpus coeso ed organico in grado di raccontarci di temi importanti e anche filosoficamente complessi come la teoria delle percezione, gli studi sul colore, sullo spazio, così come la struttura, fissa e a-performativa, riesce in realtà a tratteggiare uno spazio altro, che normalmente non esiste in natura, dove si insinua e si espande la dimensione performativa dell’opera.

A chiudere la serata, una delle compagnie di danza più interessanti del panorama contemporaneo italiano, ovvero Abbondanza Bertoni, che hanno presentato “Solo per Fies”, studio per un prossimo spettacolo ma anche evento unico per il Drodesera e assolo performativo di Michele Abbondanza. La tecnica e la capacità di saper utilizzare stili di danza diversi con fluidità e consapevolezza sono indiscussi dell’attività artistica del danzatore e coreografo, ma allo stesso tempo lo spettacolo risente fortemente dell’estrema eterogeneità in cui si espande lo spettacolo lungo i 70 minuti della performance; infatti, l’utilizzo di tanti spunti, sia narrativi che di significato che propriamente di tecnica di danza, finiscono per mettere un po’ troppa carne a fuoco nell’azione performativa, non dando l’impressione di riuscire a chiudere tutte le fila in maniera coerente e coesa, ma bensì sfilacciando lo spettacolo in tante piccole parti anche artisticamente interessanti, ma che trovano poca giustificazione tra loro. Si spera di poter vedere maggiore sottrazione nei prossimi lavori di avvicinamento della compagnia al loro nuovo spettacolo; nel frattempo, rimane un’attività performativa unica con frasi performative di indubbio valore estetico e poetico.



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