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Danzare l’assenza dell’altro: “L’Autre” del Ballet du Nord. Intervista al coreografo Sylvain Groud

Roberta Leo

Il 6 maggio scorso il Ballet du Nord diretto da Sylvain Groud, da oltre trentacinque anni “Centro Coreografico Nazionale” (un sistema del Ministero della Cultura volto a promuovere lo sviluppo della danza classica e contemporanea sul territorio francese), è passato in Italia attraverso il festival T*Danse – Danse et technologie – Festival internazionale della Nuova Danza di Aosta, dove è andata in scena la prima nazionale di L’Autre, con Lauriane Madelaine e Julien Raso, per la musica di Vanessa Wagner, e Sylvain Groud ha tenuto in via eccezionale una masterclass aperta a tutti in cui sono state esplorate le tematiche dello spettacolo. Come si danza l’assenza/presenza dell’altro?  Lo abbiamo chiesto a Sylvain Groud in persona.

Foto di Frederic Iovino

Con L’Autre il Ballet du nord vuole indagare il rapporto del singolo con l’altro e, di conseguenza la dimensione dualistica che ne deriva in un continuo oscillare tra solitudine e coppia. Questa scelta nasce dall’esigenza di parlare della difficoltà di stabilire dei rapporti di coppia duraturi ed emotivamente funzionali, tematica predominante nella società contemporanea?

Per rispondere a questa domanda bisogna parlare della necessità per cui il duetto/trio L’Autre è nato. Trio perché oltre ai due danzatori la figura della pianista, Vanessa Wagner, è stata molto importante per me. Ho creato un duo con il coreografo Vava Stefanescu, che si intitola L’oubli, nel Centro Coreografico Nazionale di Bucarest, in Romania. Si basava su dei testi dello scrittore George Banu e una tesi teatrale sui suoi testi. L’anno scorso Banu è morto e io quest’anno sono vent’anni che faccio questo spettacolo. Il tema dell’assenza non riguarda per me solo l’amore, ma una questione molto più ampia, legata all’oblio, e per questo è universale. Questi testi descrivevano come a volte noi “affondiamo”, precipitiamo, nell’oblio. Il tema mi è particolarmente caro anche perché mia madre ha poi iniziato a soffrire di Alzheimer, e non mi riconosceva più quando ci vedevamo. Ho quindi creato un duetto in cui esplorare la possibilità di un danzatore che riesca a danzare quel duetto senza avere più la memoria, appunto perché mi son dovuto confrontare con il fatto che la persona che mi aveva generato, mia madre, non c’era più, perché quando io la guardavo lei non c’era più, era nell’oblio, nel buio. L’oubli ha incontrato numerose persone diverse nel corso dei suoi vent’anni, dai bambini alle persone in carcere, e anche alle persone affette da Alzheimer, fino a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, dove ho invitato le persone a danzare con me chiedendo esprimere quali sono le cose che assolutamente non bisogna dimenticare nella vita e quali invece quelle che bisogna dimenticare per poter andare avanti, crescere. Ti lascio immaginare la violenza e la forza delle risposte: il genocidio, la guerra, ecc. Nel corso di questi lunghi anni ho invitato molte persone a unirsi a questo duo ponendo la stessa domanda e in una di queste occasioni, una signora affetta da Alzheimer ha risposto che non poteva assolutamente dimenticare il “matrimonio”. Questa anziana signora, il giorno dello spettacolo, ha fatto tutta una preparazione per le “nozze”: il velo, il trucco, l’abito, ecc. La figlia della signora, che è venuta a vedere sua madre in scena, mi è venuta vicino per dirmi “Bellissimo spettacolo, davvero. Solo un dettaglio: mia madre non si è mai sposata”! Queste sono esperienze molto empiriche, potenti, ci fanno comprendere l’importanza della memoria e dei giochi che ci fa. Con L’Autre ho voluto fare uno spettacolo che potesse essere in qualche modo il prequel de L’oubli. Come se a danzare ci fossero gli stessi personaggi, ma prima dell’oblio. In questo caso un personaggio de L’Autre può essere anche, ad esempio, un pianista che ha suonato tutta la vita e a causa di un incidente e perde alcune delle sue dita, e il come la sua memoria può ricordarsi i movimenti, i gesti, sia nella parte di mano che è rimasta, sia in quelle stesse dita che non ci sono più, perché comunque la memoria rimane. Questo è un esempio dell’universalità de L’Autre, che non riguarda solo l’assenza dell’altro, ma la parte mancante stessa di noi, a volte. In questo duetto vediamo un uomo e una donna, ma lo stesso potrebbe valere per due donne o per due uomini, perché l’obiettivo è di parlare della mancanza dell’altro, di ciò che noi abbiamo amato nella vita, il nostro più grande amore, come possono essere per esempio le mani per un pianista. Quindi è la consapevolezza presente, molto profonda, della mancanza dell’altro, e l’interrogarsi anche sui modi per risvegliare, anche, la memoria, in tutti i suoi aspetti: visiva, tattile, uditiva, olfattiva. In questo spettacolo do una mia interpretazione di che cosa sia la mancanza dell’altro. Ho immaginato una donna e un uomo che non c’è più, senza specificare se morto, se ne sia andato o per quale ragione non ci sia più. Lascio un ampio spazio di interpretazione. In effetti, anche il danzatore, Julien, ha riferito di aver sentito, facendo e rifacendo le prove, un’interpretazione diversa di questo spettacolo, cosa con cui sono molto d’accordo, perché è proprio questo che ho cercato di esprimere, che ognuno possa guardare questo spettacolo e riempirlo con i suoi significati. Durante quest’ora di spettacolo vorrei che le memorie che vengano evocate fossero edificanti, comunque un ricordo felice, non un ricordo patetico, triste. Un ricordo che aiuti a sollevarci. La donna potrebbe essere colta nell’atto del ricordare, mentre l’uomo potrebbe essere il ricordo, qualcosa che potrebbe anche essere non reale, una proiezione mentale.

La difficoltà dell’incontro con l’altro, il delicato equilibrio nella coppia e l’interdipendenza dei suoi componenti, le conseguenze violente della separazione sono tutti aspetti che con L’Autre vengono portati in scena. In che modo la musica, attraverso la collaborazione con Vanessa Wagner, riesce a interpretare tutto ciò?

Sono stato invitato al festival internazionale di musica classica di Chambord, insieme a due gruppi di persone malate di Alzheimer, per fare un laboratorio su L’oubli di cui Vanessa Wagner suonava dal vivo le musiche dello spettacolo. Vanessa rimase così colpita ed emozionata dal lavoro che feci con queste persone che mi ha poi proposto, ispirata, una nuova musica per questo laboratorio. Tutte le musiche che Vanessa mi ha proposto nel corso del tempo mi hanno sempre emozionato, mi sono sempre piaciute moltissimo perché davano l’idea della gioia dell’evocazione del ricordo, perché si dice che le persone che ci sono care, anche dopo che sono morte, non muoiono mai finché noi parliamo di loro. Io avevo voglia di tornare a esplorare il tema della memoria con questi danzatori con cui lavoro da nove anni, e volevo farlo con L’Autre. Appena Vanessa, che è una pianista di fama internazionale, lo ha saputo, ha voluto essere coinvolta nel progetto, perché aveva appena realizzato un album di musica minimalista. Così mi sono lanciato nella sua proposta. Le ho chiesto di essere anche lei presente in scena, e allora, quando possiamo, costituiamo un trio nello spettacolo. E in questi trii, il pianoforte effettivamente invade la scena, fungendo da “arbitro” tra i due danzatori, stando nel mezzo. Anche quando lei non è in scena, ovviamente c’è. Perché noi sentiamo la sua musica, con le sue accelerazioni e i cambi di tono, cerco di sentirla come una sorta di sottotitolo di ciò che i danzatori cercano di esprimere sul palco. Nella scena il pianoforte si trova in un angolo, Vanessa partecipava quando poteva, a volte per lunghi periodi di tempo non c’era, ma quando c’era la osservavo attentamente mentre guardava i danzatori, azione che faceva quando magari si sistemava le forcine tra i capelli. Lei pensava che io stessi controllando il duo, invece stavo in realtà osservando lei e ho notato che continuava ad avere dei piccoli tic alle mani quando l’ho confrontata a riguardo, lei mi rispose “si lo so, lo faccio sempre quando sono concentrata” ed è quindi molto consapevole di tutti questi movimenti che fa per concentrarsi. Continuando a parlare mi raccontò di questo ragazzo che frequentava ai tempi dell’accademia, e di come questo trio comunque le ricordasse delle lettere d’amore della sua adolescenza, e di come tutto ciò le facesse pensare alla parte di noi nascosta ma che c’è ancora, quell’energia è ancora parte di noi, un ricordo di ciò che è stato e per sempre sarà. È una memoria costruttiva, una spirale ascendente, la capacità di pensare a quel ricordo e guardare a quella parte di noi che è ancora dentro di noi.

Come è stata impostata la masterclass aperta anche a non professionisti?

La masterclass è iniziata in modo molto semplice, con dei duetti che si basano sull’interdipendenza e sul fatto che il movimento dell’uno influenza il movimento dell’altro, come nella contact improvisation, dove il partner rappresenta un aiuto, uno spazio di sostegno per l’individuo, dove però non deve esserci chi guida e chi segue, ma ci deve essere una interdipendenza fluida nel movimento continuo con il partner, in cui si possa seguire il movimento dell’altro a occhi chiusi. Uno dei punti chiave di questa disciplina è affidarsi all’altro, mantenere una fiducia reciproca, per lasciar andare il proprio peso, qualunque esso sia, accolto dall’altro. Vengono meno i tabù legati al tocco del corpo di uno sconosciuto, per andare ad appoggiarsi completamente all’altra persona, senza ostacolare il lavoro altrui a causa di blocchi mentali. Un paragone potrebbe essere fatto con una squadra di football: i giocatori sanno dove passare la palla senza guardare perché si fidano e sentono la posizione dei compagni nel campo. Adesso sono nove anni che lavoro su L’Autre con Julien e Lauriane, e rimango impressionato da come potrebbero eseguire alla perfezione l’intero spettacolo a occhi chiusi. Nella masterclass abbiamo fatto qualcosa del genere: i partner hanno ballato a occhi chiusi insieme, e poi separatamente, li ho fatti danzare basandosi sulla memoria dell’altro. Ciò evidenzia una mancanza importante, dove prima si appoggiavano al partner con sicurezza, nel secondo caso non trovano nulla e il tutto lascia una sensazione terribile addosso, evidenziando l’importanza dell’unione.

La vostra cifra stilistica è basata su un teatro multidisciplinare che, tuttavia, parte da una linea coreografica prettamente neoclassica. In questo specifico momento la vostra ricerca su cosa è orientata?

Sono 38 anni che danzo e sono 38 anni che mi chiedo che cos’è un danzatore e che cosa si fa quando si balla. Non credo nelle etichette. Penso che la danza contemporanea sia arte coreografica a servizio di un tema, di un messaggio e senza concessione estetica. Il neoclassicismo preferisce l’estetica al messaggio. Nel mio caso, al contrario, l’estetica passa in secondo piano. Infatti quando facevo le prove con i danzatori dicevo che se è carino e basta non va bene perché quando qualcuno ti manca non è carino, è questo il messaggio che intendo trasmettere; al massimo è profondamente bello perché sincero e necessario. Bisogna servire questo proposito. Questo significa che anche dei movimenti quotidiani possono diventare dei movimenti coreografici. La nostra riflessione si basa anche su come i movimenti di ogni giorno, come quelli che facciamo con le mani quando parliamo, o quando appoggiamo un braccio su un fianco, possano diventare degli elementi coreografici all’interno di uno spettacolo. Ho lavorato a stretto contatto con operai delle fabbriche o al pronto soccorso con delle infermiere per ricercare il movimento del gesto professionale. In 48 spettacoli che ho fatto la musica è sempre stata un accompagnamento molto bello e potente, non sgraziato. Se anche inserisco una musica che somiglia a una marcia militare, non sarà mai una marcia militare e basta, ma una marcia con variazioni di bellezza, una sua stilizzazione poetica. Nei miei spettacoli la sensazione che creo è che il palcoscenico sia uno spazio sacro e quello del pubblico lo spazio profano. Con il mio collega, Jean-Marie Perinetti, discutevamo appunto su quale dei due spazi desiderassimo fosse la realtà. La risposta è che l’armonia possiamo già averla oggi, semplicemente col contatto, stando uno di fronte all’altro: giace nel potersi toccare senza il desiderio di possedere l’altro come un oggetto sessuale, ma semplicemente nello scambio. È qui che il teatro diventa quello che era anticamente, uno spazio simile a un’agorà, un luogo di scambio, incontro, tra persone. Che esperienza facciamo quindi noi, insieme, di questo spazio? È questa probabilmente l’armonia che si vuole ritrovare nel caos. Nella vita quotidiana si ha sempre un po’ come la sensazione di essere un po’ addormentati mentre si compiono azioni quotidiano. Il teatro, invece, ti da la possibilità di essere sveglio, reattivo, aperto.

Potrebbe spiegare meglio la Sua ambizione/visione “di far parte di una dinamica di democrazia culturale”? Cosa vuol dire per Lei?

A quello che ho già detto, aggiungerei che c’è una cosa che non ho mai accettato della mia famiglia, che quando ho iniziato a danzare a 17 anni, che era già tardi, e chiedevo alla mia famiglia di venire a vedermi agli spettacoli, mi rispondevano che la danza contemporanea o il museo non facevano per loro. Non riuscivo proprio ad accettarlo. Quindi la risposta alla possibilità che un artista ha è spostarsi lui o lei, in quello spazio in cui l’altro consuma, va, frequenta abitualmente. Per i danzatori è molto importante danzare almeno una volta in un supermercato, ossia un luogo di consumo molto grosso, per dare proprio la possibilità alla persona che è li e che non vuole essere o sentire ma possedere e acquisire altre cose, di fare un’esperienza di calore umano, di contatto fisico, di musica, una possibilità diversa da ciò che è possedere, prendere, avere. Bisogna accettare la sfida di autoinvitarsi nell’universo dell’altra persona, o almeno quello che una persona crede sia il suo universo, coinvolgere una qualsiasi persona comune incontrata in un processo creativo per farla sentire capace, farle sentire che anche lei è capace nonostante non voglia partecipare al processo. Il coreografo deve essere capace di pescare dentro questa persona, tirare fuori da lei il suo movimento perché andare lì e insegnarle un movimento a memoria davanti a uno specchio si può fare anche in palestra. Lo scopo è guardare la persona e tirare fuori da lei quello che è già il suo movimento. La danza dovrebbe essere parte della ricchezza culturale di ogni persona, come il condimento che si ama sulla pizza che rende la propria pizza più appetitosa di quella del proprio vicino. Quella è la sua ricchezza culturale e allora quello sarà ciò che danzeremo. Alla fine di questa esperienza la persona si rende conto che coreografare non è altro che aprirsi al mondo. Dico sempre ai miei danzatori, sia professionisti che amatori, che coreografare è “accogliere”. Non è volere, ma semplicemente accogliere, vedere, accettare, ciò che deve essere fatto o detto. Ho lavorato con numerosi gruppi di persone diverse come giovani in difficoltà, eccetera. Negli spettacoli c’è sempre una spina dorsale che rimane al centro ma poi tutto quello che gira intorno, cioè l’incontro tra le persone, crea un movimento che rappresenta l’autenticità dello spettacolo.



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