Arti Performative

Compagnia Teatrale Dracma // Clitennestra

Giovanna Villella

Clitennestra o del crimine, un’opera del 1936 di Marguerite Yourcenar, inserita nella raccolta Fuochi. La rielaborazione di un mito che ritrova nuova linfa nella visione della Yourcenar, capace di restituire, in chiave moderna, la complessità di una donna con dentro un dolore eterno, in tensione continua tra Eros e Thanatos come poli dell’esistenza sia fisica che metafisica.

L’adattamento drammaturgico del testo, dal titolo Clitennestra, prodotto da Dracma – Centro sperimentale d’arti sceniche, con Paolo Cutuli che firma anche la regia, è andato in scena al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme nell’ambito della stagione teatrale organizzata da Ama Calabria. Nel 2014, lo spettacolo ha vinto il Premio Parodos – Tindari Teatro Festival come Miglior spettacolo e Miglior interpretazione.

Una scena nuda e buia, con luci, supreme, che passano dalla luminosità algida al rosso voluttuoso fino alla penombra tragica. Un attore, un microfono e l’uso della voce come espressione esclusiva e autonoma di presenza e di interpretazione scenica mentre vasti silenzi si acquattano tra le pieghe di un apparato musicale che va dai ritmi tribali al pop-rock, dal classico al melò in attesa di deflagrare, in un grumo di odio e amore, nel confronto con gli altri personaggi presenti in guisa di valigie, diverse per colore e dimensione, simboli di partenze e di ritorni: rossa e grande Agamennone, nera e piccola Egisto, fucsia e media Cassandra.

Il corpo di Cutuli si spoglia degli attributi derivanti dalla sessualità e diventa corps sans organe alla maniera di Artaud, irradiante pura energia. La sua carne si fa verbo per assecondare le impennate linguistiche, il lessico infiammato e magmatico, l’effusione di immagini, il fasto semantico tra rimandi antichi e sentimenti eterni.

Paolo Cutuli, “Clitennestra”. Foto di Ama Calabria

Una cupa notte si stende su quest’atto unico lungo come solo un incubo può esserlo.
Silenzio. Parla Clitennestra. Una voce quasi spettrale, si materia in una confessione di orrore e pietà, affascinante per forza di allucinazione e portata poetica che accompagnano questa femminile introspezione mentre, nel costante esercizio della memoria, la tenerezza si alterna all’impeto romantico, l’accensione febbrile a un’ironia che, talvolta, sconfina nel sarcasmo. E gli spettatori/giudici si trovano proiettati in una subconscia dimensione in cui si agitano fantasmi di antiche colpe e presagi ancor più fatali. Poi l’attenzione alle parole, parole di pietra e di piuma, alle frasi, in un incastro musicale: toni armonici, forti, suadenti, che virano in incurvamenti improvvisi, come trascinati da gesti pesanti, dolenti, mentre le catene scivolano e il corpo si muove sinuoso, seguendo il ritmo di Questa vita cambierà di Nada, in un amplesso ad alta carica erotica con il “suo” Agamennone/valigia. E il canto d’amore si leva imperioso verso un cielo ormai senza dèi, perché saranno gli uomini a dover giudicare questa donna, personificazione di un Eros concreto, nero e soffocante, e posseduta da un amore totale, assoluto che la invade come una malattia o una vocazione.

Nel ricordo, la voce – accompagnata dalla melodia dolcissima di Tango to Evora di Loreena McKennitt – si fa carnosa e carezzevole al pensiero, piantato come un chiodo, di quell’uomo che era il suo dio e che lei amava accudire e accogliere. La sua partenza la fa sprofondare in una solitudine senza consolazione, innescando in lei un processo di virilizzazione: comincia a praticare le stesse attività di Agamennone, ad agire come lui, a pensare come lui, «Mi sostituivo a poco e poco all’uomo che mi mancava e che mi ossessionava». E qui Clitennestra acquista i contorni di una sincera figura femminile che incarna la fatica di esistere, nell’attesa dell’uomo che ama.

Un’attesa lunga dieci anni, scandita dall’arrivo di una lettera ad ogni compleanno sulle note di Ma che freddo fa nella versione degli Avion Travel. All’interno, dei cuori – leitmotiv dell’intera pièce – che si fanno sempre più piccoli e che la portano a “strapparsi” il suo, rosso, sacro, palpitante, tatuato sul petto e a sostituirlo con uno nero, stilizzato, disegnato con un pennarello. In questo stato di momentanea vedovanza, Clitennestra prende come amante Egisto, che lei vede come «l’equi­valente delle donne asiatiche» di Agamennone, pur considerandolo un bambino pieno di paure, «un figlio nato dall’assenza». Un ritrovato istinto materno – altrove appena accennato per la morte della figlia Ifigenia – che si traduce, scenicamente, in una antica ninna nanna in vernacolo calabrese, mentre culla tra le braccia la piccola valigia nera. Poi il racconto del ritorno di Agamennone, appesantito dagli anni e in compagnia di una donna-bambina, bottino di guerra, ingravidata dal peso di un’empia maternità. La musica divina di Mozart fa da tappeto sonoro alla gelosia furibonda, amplificata dai virtuosismi vocali dell’aria Regina della notte dal Flauto magico di Mozart, e contrappunta con il Lacrimosa – il brano più struggente del Requiem – la lenta liturgia della morte e della dissoluzione in un crescendo di furore cieco e assassino.

Cutuli, nella sua tenuta ieratica che non lascia spazio a cedimenti, con l’intensità degli sguardi, le variazioni timbriche e i silenzi, non si lascia sfuggire alcuna delle consapevolezze e delle note del testo. Egli fa navigare la sua Clitennestra tra le vette e gli abissi di un oscuro dramma del desiderio, inebriata come un’ape regina, intrappolata come un ragno nei fili della sua stessa tela, condannata ad esistere in una condizione di morte in vita. Eppure, anche se stanca e sconfitta, questa donna dai capelli grigi va verso una fine cercata come ultimo momento di grandezza mentre attende, ogni notte, il suo sposo infernale. E i Depeche Mode intonano Heaven.

[Immagine di copertina: foto di Ama Calabria]



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