Cinema Festival

Berlinale 2019

Franco Cappuccio

La 69esima Berlinale è stata una di transizione. Alla chiusura dell’edizione 2019, infatti, il direttore del festival Dieter Kosslick si è ufficialmente ritirato dopo 19 anni alla guida di uno dei più grandi e più profondamente analizzati eventi cinematografici del mondo. Il suo precedentemente annunciato successore, Carlo Chatrian, precedentemente al Festival di Locarno in Svizzera, poteva essere visto al festival in un ruolo non ufficiale, e la sua presenza da sola sembrava aver fatto preventivamente guardare avanti le persone. Negli ultimi sei anni, Chatrian ha reso Locarno probabilmente la destinazione principale per il cinema d’arte internazionale – lo stesso cinema che negli ultimi anni Kosslick è stato accusato di aver largamente abbandonato in favore di interessi più commerciali. Nel 2017, una lettera firmata da decine di registi tedeschi di primo piano (compreso Christian Petzold, Maren Ade, Margareth von Trotta, e altri) chiedeva una drastica revisione delle priorità del festival. Quattro giorno dopo l’inizio della Berlinale passata, in un articolo pubblicato da Variety si è annunciato che Chatrian avrebbe portato la gran parte del suo team di programmatori per l’edizione 2020 del festival.

Mentre si vedrà come andrà l’edizione alle porte del festival (ma è saggio ricordare che la Berlinale, in quanto uno degli eventi culturali ed economici più importanti della città, serve molti padroni, di cui pochi di loro hanno a che fare con qualcosa di anche solo remotamente artistico), questo cambio di direzione fortemente dibattuto si è rivelato istruttivo per valutare l’edizione passata del festival, che in molti modi è stata emblematica del regno di Kosslick. Ironicamente, il film del festival (e uno dei film più interessanti della scorsa annata cinematografica), I Was at Home, But… di Angela Shanelec, è esattamente il tipo di film che i critici di Kosslick avrebbero chiesto di più all’interno del concorso. Forse soddisfava semplicemente i requisiti per l’inserimento (regista donna tedesca con una buona credibilità nel mondo del cinema d’arte), ma non si può negare l’audacia della selezione – frammentato, ellittico e fortemente manierista, il film difficilmente tradisce l’ideologia della Shanelec (curiosità: l’inclusione del precedente film della Shanelec, The Dreamed Path, all’interno del programma di Locarno 2016, ha segnato la prima presenza della regista tedesca all’interno del concorso di uno dei principali festival, probabilmente spianandole la strada per la sua promozione all’interno della sezione principale di Berlino). Allo stesso modo, Synonymes dell’israeliano Nadav Lapid; vincitore dell’Orso d’Oro dell’ultima edizione, il racconto enigmatico del quarantaquattrenne regista su di un soldato israeliano che se ne va a Parigi per cancellare la sua identità è un lavoro di tale precisione estetica e politica che già solo la sua inclusione nel concorso è degna di nota (bisogna dire anche che la giuria dell’edizione passata guidata da Juliette Binoche, che ha anche premiato la Shanelec con la Miglior Regia, ha fatto delle scelte particolarmente ispirate).

Ma poi, l’annuale ramoscello d’ulivo ai critici e ai cinefili d’autore non è mai stato un punto di contesa – dopo tutto, Lav Diaz è diventato una presenza fissa nel concorso della Berlinale, mentre i film recenti di Hong Sangsoo o Aki Kaurismaki provano che qualcuno ha un occhio sul cinema d’essai internazionale. Piuttosto, le lamentele si levano attorno ai film che riempiono abitudinariamente il concorso, una combinazione di pessimi film di registi di nome (o quantomeno registi riconoscibili) e pessimi film di registi poco conosciuti la cui carriera festivaliera grosso modo inizia e finisce alla Berlinale. Per esempio, non lascia perplesso tanto che il brutalmente stroncato The Kindness of Strangers di Lone Scherfig sia stato scelto per aprire il festival, quanto che sia stato in qualche modo selezionato per competere al premio principale (si può dire quello che si vuole su Cannes, ma per lo meno hanno il buon senso di tenere i loro film d’apertura fuori concorso). Per alcuni titoli, come Per grazia di Dio di François Ozon, un benintenzionato ma eccessivamente monotono racconto di pedofilia nella chiesa cattolica, o la maldestra critica dei due pesi e le due misure del patriarcato di Teona Strugar Mitevska, Dio è donna e si chiama Petrunya, è perlomeno facile comprendere perché siano stati invitati a competere – tematiche di attualità riflettono un ethos di programmazione socialmente impegnato, ed è oltretutto una buona fonte di articoli. Lo stesso certamente non si può dire dell’eccessivamente sgradevole ed imperdonabile film di serial killer Il mostro di St. Pauli di Fatih Akin, il quale sembra essere stato selezionato per le esatte ragioni opposte, soltanto sul terreno della pure provocazione. Nel frattempo, non posso fare a meno dal pensare che Ghost Town Anthology di Denis Côté, un inquietante balzo nel cinema di genere per il prolifico regista quebecchese, avrebbe avuto più giovamento dall’essere messo in un’altra sezione, lontano dalla lente della competizione.

In mezzo a tutto questo clamore le virtù sottili del capolavoro di Shanelec vengono fuori con ancora più forza. Con Maren Eggert nel ruolo di Astrid, una madre single sulla quarantina di due bambini, l’ispirato da Ozu I Was at Home, But… offre un apparentemente semplice sguardo ad una famiglia che cresce in nuovi ruoli all’alba di una perdita inaspettata. Offrendo quello che alle volte sembrano essere soltanto dettagli frammentari, la solitamente discreta narrativa della Shanelec premia gesti e azioni sull’esposizione; ci rendiamo conto che il marito di Astrid è morto, per esempio, non da una conversazione ma dallo strano comportamento del figlio teenager Phillip (Jakob Lassalle), che ritorna nei momenti d’apertura del film da un’inspiegata assenza. Astrid appare incapace di lenire il dolore di Phillip, oltre che il suo (la devastante sequenza centrale del film vede Astrid sdraiarsi sulla tomba del marito, accompagnata dal suono della cover di M. Ward della canzone di David Bowie Let’s Dance), lasciandola ad un bivio che presto metterà in azione un’intera rivalutazione della sua identità personale, professionale e creativa. Meno evasivo dello spalmato su decenni The Dreamed Path ma semplicemente frantumato nella sua costruzione cubista, il film consolida una piccola comunità di personaggi degni di nota attorno al dramma famigliare centrale. In quelli che sono diventati una pietra miliare del cinema di Shanelec, sono questi momenti apparentemente tangenziali o incidentali – una produzione scolastica di Amleto; episodi della riluttante rottura di una giovane coppia; o l’immagine altamente simbolica di un cane lupo addormentato ai piedi di una scimmia – che reggono invece le verità più grandi. A tratti vivido e sfuggente, è un film che, seppur obliquamente, articola qualcosa di profondo sulla nostra esistenza condivisa e quei piccoli momenti che formano il proprio senso di sé.

Generalmente considerata un’oasi in mezzo al caos della Berlinale, la sezione collaterale Forum, una sorta di programma omnicomprensivo per le forme più estreme ed esoteriche di cinema, ha subito anch’essa nella passata edizione una transizione. In seguito alla partenza del direttore di sezione Christoph Terhechte, il programma 2019 è stato supervisionato dal resto del team dell’Arsenal Cinema di Berlino. Quello che non è cambiato è lo spazio dedicato agli angoli più artistici del cinema nordamericano. In seguito alle recenti selezioni di Ted Fendt (Short Stay, Classical Period) e Ricky D’Ambrose (Notes on an Appearance), l’edizione passata di Forum comprendeva non meno di quattro film di filmmaker americani nuovi e degni di nota, che insieme proponevano un’angolazione alternativa del cinema contemporaneo di lingua inglese a quella del classico programma da Sundance o da SXSW. Per esempio, il lavoro del newyorkese Dan Sellitt raggiunge gli schermi cinematografici così poco di frequente (il suo film precedente, The Unspeakable Act, risale al 2012) che, quando lo fa, non fa che accentuare quello che manca al cinema americano. Il suo ultimo, Fourteen, un bellissimo ritratto sottile di due amici d’infanzia (interpretati da Tallie Medel e Norma Kuhling) che lentamente crescono e si allontanano l’una dall’altra, approccia l’amicizia femminile e la prima età adulta con tenerezza e una consapevolezza sfumata del tempo e del suo passaggio. Ancora una volta ispirandosi alle parti meno di moda del cinema francese (Maurice Pialat, il periodo centrale della filmografia di Éric Rohmer), Sallitt tratteggia un ritratto lucido di persone riconoscibili ed imperfette, privo di dramma inappropriato ma con toni di tale onestà da turbare per la sua acutezza emozionale. Il secondo film di Jessie Jeffrey Dunn Rovinelli, So Pretty, è allo stesso modo completamente emozionale, nonostante la sua New York sia completamente diversa. Una proteiforme interpolazione del romanzo di Ronald M. Schernikau So schön, So Pretty si concentra su una piccola comunità LGBTQ+ a Brooklyn. Tra assemblee sociali, dimostrazioni politiche, e letture letterarie all’aperto, il gruppo si mescola in vari spazi domestici, le loro attività mappate meno dalla narrativa quanto da un senso di resistenza e di esperienza condivisa. E infatti, Rovinelli sembra meno interessato a raccontare una storia tradizionale quanto catturare un momento, una comunità, un’essenza, una cosa che potremmo guardare un giorno come un documento chiave di persone specifiche in un posto specifico in un tempo incerto.

Uno dei film più strani di Forum dell’anno scorso arriva dalla mente di James N. Kienitz Wilkins, uno scrittore e filmmaker molto spesso associato sotto l’egida del cinema sperimentale ma uno il cui coinvolgimento schivo con i piaceri e le pretenziosità della cultura alta e bassa allo stesso modo lo rendono impossibile da classificare. La sua sceneggiatura per The Plagiarists, un nuovo film co-scritto con Robin Schavior e diretto da Peter Parlow (a cui IMDb attribuisce solo un film precedente… un film visto pochissimo del 2014 realizzato dalla casa di produzione di Kienitz Wilkins, chiamata Automatic Moving…), è la cosa più vicina ad un film convenzionale da lui realizzata – nonostante, come in molte cose nell’universo di Kienitz Wilkins, queste convenzioni sono riconosciute solo per essere ribaltate. Quando la loro auto si rompe lungo la via che va dal nord dello stato di New York a Philadelphia, Anna e Tyler (Lucy Kaminsky e Eamon Monaghan) a malincuore decidono di stare a casa di un passante chiamato Clip (Michael “Clip” Payne), un uomo afroamericano di mezza età e apparente conoscenza dell’amica della giovane coppia Alison (Emily Davis). Fin qui, tutto bene. Ma quella che sembra essere inizialmente una notte senza pericoli di gratitudine, con Clip che cresce in eloquenza e dona una camera vintage a Tyler, in retrospettiva appare sospetta, in quanto Anna traccia la fonte di uno degli aneddoti commoventi di Clip ad un libro di Karl Ove Knausgård, il primo di numerosi prestiti e potenziali plagi invocati in questo lavoro altamente citazionistico. Andando in vacanza l’estate successiva con Alison, i tre spendono il resto del film dibattendo e sezionando le dimensioni etiche di questo presunto crimine, con Anna che ci riflette in relazione con le proprie aspirazioni da scrittrice, e Tyler non tanto in relazione a lui come filmmaker. Agendo inoltre da operatore e montatore (e girando in un assurdo formato a bassa risoluzione, in aggiunta alle peripezie meta-concettuali), Kienitz Wilkins porta conoscenza enciclopedica ed umorismo a questa storia di autorialità e la natura relativa della verità. Evocando un enorme numero di testi, idee e tradizioni, The Plagiarists offre un’esilarante e astutamente feroce valutazione della nostra economia creativa contemporanea.

La filmmaker di base a Toronto Sofia Bohdanowicz si è costruita un’intelligente e fortemente personale filmografia nel corso dell’ultimo decennio. MS Slavic 7, il suo ultimo lavoro e forse il migliore di questo quartetto di prime di Forum, la vede di nuovo esplorare la storia della sua famiglia attraverso una cornice finzionale che prende spunto equamente da materiale d’archivio e da esperienze di prima mano. Co-diretto e interpretato dalla frequente protagonista dei film della Bohdanowicz Deragh Campbell, il film segue la Audrey della Campbell (un personaggio introdotto per la prima volta nel film del 2016 della Bohdanowicz Never Eat Alone) mentre ricerca delle lettere inviate dalla sua bisnonna, una poeta polacca, all’autore Józef Wittlin mentre i due vivevano in esilio in Nord America. Queste lettere, scritte nella realtà dalla vera bisnonna della Bohdanowicz, Zofia Bohdanowiczowa, formano la spina dorsale della storia; viste variamente sul foglio, tradotte sullo schermo come sottotitoli, o proiettate sul muro della Houghton Library di Harward (il titolo del film si riferisce al numero di riferimento per la corrispondenza), le parole e il loro materiale registrato diventano una potente condotta di memorie ed emozioni. Mentre riflette ogni sera sulle lettere e le loro dichiarazioni sentite, Audrey appare esortata a riconciliare il coraggio al cuore della corrispondenza con la propria malinconia non detta. In un flashback, partecipa ad una celebrazione di anniversario, dove lei e sua zia (Elizabeth Rucker) litigano riguardo al suo ruolo di esecutrice letteraria dell’eredità, un ruolo che vediamo Audrey raccogliere con curiosità e desiderio. Con calma determinazione ed empatia, anche Bohdanowicz e Campbell riflettono sul desiderio di Audrey; insieme hanno coltivato un personaggio che a questo punto non può essere letto come un surrogato (se mai fosse stato possibile), ma come una figura complessa e in costante evoluzione in modo indipendente. Ad una Berlinale piena di discussioni e speculazione, MS Slavic 7 si è rivelato un sollievo benvenuto, in grado di aprire uno spazio per il pensiero e l’introspezione che pochi preziosi film possono permettersi.



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