Tino Caspanello/Tino Calabrò // Era ottobre
Lamezia Terme, 2 marzo 2025, TIP Teatro. In scena, per Ricrii 21 “Any Kind of Color”, rassegna di drammaturgia contemporanea con la direzione artistica di Dario Natale, Era ottobre con Tino Caspanello, che firma testo e regia, e Tino Calabrò. Produzione Teatro Pubblico Incanto.
Tino Caspanello è una delle penne più raffinate e influenti della nuova drammaturgia italiana. Scrittore, autore, attore, regista, docente di regia e scenografia. Nel 1984 è assistente alla regia di Arnoldo Foà. Nel maggio 1993 fonda la Compagnia Teatro Pubblico Incanto con cui allestisce e interpreta più di 30 spettacoli di autori quali Eduardo De Filippo, Jacopone da Todi, Shakespeare, Pirandello, Albee, Melville, Consolo, Wilcock; parallelamente, inizia la sua attività di drammaturgo. I suoi testi, pluripremiati, sono stati pubblicati e tradotti in tutto il mondo. È stato invitato a partecipare alla residenza per drammaturghi durante il festival Regards Croisés a Grenoble nel 2011, all’École Normale Supérieure di Lione e all’Università di Clermont Ferrand nel 2011, al Border Festival di Cieszyn, in Polonia, nel 2012, all’Università di Hong Kong, nel 2016, per rappresentare lo spettacolo Mari. Ha curato la direzione artistica del “Pubblico Incanto Art Theater Festival” nel 2011 e di “WRITE – residenza internazionale di drammaturgia” nel 2016, 2017, 2018, 2020, progetto che ha ricevuto nel 2018 il Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Nel 2018, la versione albanese di Mari ha ricevuto il Palmarès Eurodram. In Italia, i suoi testi sono pubblicati da Editoria & Spettacolo. All’attivo anche due romanzi, Salvo (Caracò, 2016); Santa, la guerra (La Gru, 2022).
La scrittura di Caspanello è conforto, balsamo, dono, soffio di poesia e lo spettacolo Era ottobre scivola come una ruvida carezza. Leggero, profondo, commovente, tenero, divertente. L’incontro tra due solitudini che diventa una storia d’amicizia fatta di attese, presenza, gesti, sguardi, parole e silenzi. È un tramare piano, sul posto, senza disturbi – fatta eccezione per i piccioni che vengono a beccare i popcorn e per qualcuno che fa jogging con le cuffiette e il contapassi – e senza espedienti d’azione. C’è un uomo che aspetta su una panchina. L’attesa si consuma sulle note e le parole di Quizas Quizas Quizas di Osvaldo Farrés «Siempre que te pregunto / Que, cuándo, cómo y dónde / Tú siempre me respondes / Quizás, quizás, quizás», che sembrano anticipare il dialogo tra i due, prima che l’altro arrivi.
Il tempo scorre, in quella terra di nessuno, dove i due vecchi “ragazzi” si incontrano da 9 anni e 304 giorni, per un’ora al giorno. 3512 incontri da quel lontano 26 ottobre di quasi 10 anni fa, da quando hanno deciso di vedersi ogni giorno in quel luogo, stare insieme per un’ora intera, senza fare nulla, mangiando popcorn e bevendo vino bianco. Entrambi fanno esercizio di memoria. Uno è puntuale, puntiglioso, petulante, l’altro è un ritardatario cronico che “si prende il tempo degli altri”, che vive alla giornata. Oggi, sono quasi dieci che la sua compagna è scomparsa. «Noi non esistiamo, siamo come monete fuori corso che nessuno vuole più» dice, ed è in questa dolce e tremenda conoscenza del Nulla che si muove la loro esistenza. Eppure non sono personaggi metafisici, in loro non c’è traccia di afasia – anche i silenzi sono pregni di senso –, non lasciano balenare crisi d’identità, non si arrovellano sulle grandi domande esistenziali e le loro scaramucce sono il cuore di questo buffo e tenero dramma. Sono personaggi semplici, calati nella quotidianità, ma assoluti. Durante l’elaborazione del lutto, per sessanta giorni l’amico gli rimane accanto, invisibile e silente, controllandolo a distanza, fino a quando non riesce a trascinarlo lontano da quella casa, dai ricordi. Adesso lui vorrebbe partire, andare lontano da quel posto, da solo, ma l’altro non riesce ad abituarsi all’idea dell’assenza: «Siamo come gli uccelli migratori, aspettano di partire ma non se lo dicono». Due vite piccole e ristrette da cui è impossibile uscire, per abitudine – certo – ma anche per paura. Paura della solitudine e paura della morte in solitudine, che equivale alla morte in vita. E quel gesto finale, quasi paterno, in cui l’uno allaccia la scarpa all’altro diventa correlato emotivo di un pensiero taciuto, perché anche se si arriva a toccare la faglia più profonda del dolore l’amicizia tra uomini è un luogo sicuro, come quella panchina lontano dalla folla.
Questo testo a due necessita di molta dedizione. Nell’apparente rifiuto di una trama, diventa significativo, credibile e rappresentativo dello spaesamento che attraversa. Come una pennellata bianca su un fondo bianco lascia intravvedere velature, sfumature, sovrapposizioni. Bisogna andare oltre la tela, cercare le impercettibili variazioni di tono, di intenzione, i passaggi dalla leggerezza alla malinconia, in frazioni di tempo minime, magari soltanto con un’espressione del viso, un elusivo movimento degli occhi, un distratto tamburellare di dita. La coppia Caspanello/Calabrò si rivela di una bravura sconcertante e Caspanello, nella sua drammaturgia limpida e delicata, essenziale e antiretorica ritrova la purezza della parola, laddove l’esercizio dell’ironia diventa dimensione sofisticata e ambigua del comico, dando dignità morale ed esistenziale alla senilità, quella stagione della vita, quel “terzo tempo” in cui si chiede agli uomini (e alle donne) di farsi vedere senza farsi troppo notare.