Arti Performative Focus

VIE Festival 2019 // La sincerità del racconto, l’artificio del raccontare – parte I

Maria D'Ugo

«Una vocazione al mappare la contemporaneità», questo il primo attributo indicato dal direttore Claudio Longhi come principale missione del VIE Festival, la XIV edizione: definizione che sottende quasi una chiamata primigenia, biologicamente connaturata a un festival che ogni volta va a sua volta rimappato, sparpagliato com’è fra i palchi di Bologna, Carpi, Castelfranco Emilia, Cesena e Vignola.

Come negarne la confortante risolutezza, specie nel puntare una volta di più l’indice sulla fedele compagna di banco del linguaggio e della pratica del teatro, su quella contemporaneità necessaria, eccessiva, invocata, sdoganata, millantata, rappresentata, e comunque sempre problematica, come problematico è il terreno del teatro. Eppure, forse in questo caso si potrebbe provare a soffermarsi a monte, sull’intenzione di mappare, dunque di rappresentare, azione che con analogo gesto riporta dalle linee frastagliate all’organicità concettuale, al quadro composito, ma strutturato, che si può anche abbracciare nella sua interezza, potendo basarsi potenzialmente solo su un’affinità di spazi e tempi dell’oggi, ovvero, di quel che c’è. In questo caso, forse, fra le virtù di dell’edizione 2019 da poco conclusasi di VIE – di certo non l’unica, ma con altrettanta certezza riscontrabile a livello tematico – si potrebbe però essere tentati di intravederne anche un’altra, in piccolo, che è quella di aver suggerito cautamente anche una certa affinità nel metodo di rappresentazione, un bisbiglio calmo e almeno in qualche caso (di cui non si potrà in questa sede offrire una visione esaustiva) anche sottilmente ironico e divertito, sul come guardare a questo “drammatico” contemporaneo, e in che maniera approcciarlo; magari, mettendo un bel filtro proprio sullo spazio e sul tempo, facendo cadere una goccia d’inchiostro sulla parola “reale”; scompigliare i limiti dell’univocità, grattando sulle superfici per estrarre l’oggetto dell’indagine; e sovrapporre una dose di artificio allo scavo, di finzione sull’assoluta sincerità del racconto, così da non poter mai essere in grado di aver visto tutto, e del tutto.

“True Copy” del collettivo Berlin. Foto di Koen Broos.

In questo se la cava sicuramente bene il collettivo fiammingo Berlin, nello scanzonato racconto ricostruito attraverso un sofisticato apparato tecnico-multimediale, in True Copy. Il paradosso è quello della storia inenarrabile non solo per l’“illiceità”, ma soprattutto per la sua natura stessa di dover nutrirsi di finzione, per esistere: True Copy è la storia del contraffattore di opere d’arte Geert Jan Jansen, che ha scorrazzato liberamente per oltre vent’anni prima che un sovrintendente tedesco lo smascherasse, a causa, ironia della realtà che supera finzione e contraffazione, soltanto di un errore ortografico nella firma sulle tele. Il taglio documentaristico del collettivo Berlin si mantiene immutato rispetto alla ricerca presentata in Perhaps All The Dragons, ospite nell’edizione 2016, in cui il personaggio del falsario viveva già, ma rispetto ad allora la storia incredibile esce dallo schermo. Quello con Geert Jan Jansen parte in True Copy come un dialogo, mentre alle spalle del falsario e dell’attore una parete di schermi (che ingannano l’occhio e si travestono da quadri) proietta le riproduzioni di tutte le opere di cui Jansen è diventato il secondo genitore. Fra Picasso, Dalì, Magritte, Hockney e Appel, suo vero amore, che si sovrappongono a documenti, fotografie e stralci di giornale, Jansen si racconta con ironia e pianezza, e grazie alla mediazione della telecamera, che ne segue la “passeggiata”, conduce l’occhio della platea anche laddove non potrebbe arrivare, oltre la parete, e dove fino alla fine crediamo che sia stato ricostruito un duplicato del suo studio. Intanto, il mondo dell’arte crolla nella narrazione e si reduplica in sala (addirittura si improvvisa una pubblica asta, un quadro di cotanto artista a soli cinquemila euro è «un vero affare»). Con un crescendo cinematografico, la finzione è lì solo per poter essere svelata: Jansen si toglie la maschera e la parete di schermi che costituisce la scenografia si apre sul finale, rivelando la vacuità dello spazio retrostante. Una finzione travestita da finzione, realistica, ma soprattutto lucida, vagamente sorniona e sarcasticamente consapevole di giocare con i livelli di realtà del racconto stesso.

“Sei”, libero adattamento da L. Pirandello di Spiro Scimone. Regia di Francesco Sframeli.
Nella foto: Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Gianluca Casale, Miriam Russo, Mariasilvia Greco, Francesco Natoli, Bruno Ricci, Zoe Pernici, Michelangelo Zanghi e Giulia Weber. Foto di Gianni Fiorito

Fingere è a tutti gli effetti creare. In questo ne segue la scia, pur con una musicalità differente, anche la superba riscrittura pirandelliana dei Sei personaggi in cerca d’autore firmata dalla siciliana Compagnia Scimone Sframeli, piccolo capolavoro di asciuttezza e leggera ironia. Spettacolo nel quale l’autenticità riemerge proprio in quello stesso meccanismo di slittamento fra i vari livelli di finzione, che fa poi slittare il teatro verso la sua sincerità oltre-scena. Sei è un piccolo gioco d’eleganza sul nucleo poetico di un classico: una compagnia di teatro battibecca col regista, ci sono le prove da fare, il tecnico corre verso il bagno. La luce salta, e lì irrompono i Personaggi. Qual è la vita che rincorrono e che stanno cercando? Raccontano, propongono alla loro platea (quella degli Attori, ovviamente) la loro storia, dissentono sulle scelte registiche ridendo in faccia alle convenzioni di un linguaggio che, evidentemente, manca di ritmo. In Sei il “ritmo” diventa a tutti gli effetti un personaggio aggiunto: il lavoro sulla musicalità, all’interno dello spettacolo, vive anche della leggera meraviglia dello spettatore nel riscoprirsi catturato da una serie di versi e frasi che si ripetono e si sdoppiano battuta dopo battuta. Si fanno eco, si “fanno il verso”. Le parole del racconto che contiene i racconti si alleviano sedimentandosi, si sospendono più leggere, si agganciano al riso o all’indignazione di personaggi che nella loro stessa esistenza non sono mai “uno”. La sonata di Sei si conclude con un’ironia leggiadra e beffarda laddove era cominciata. Col tecnico che torna dal bagno.

“I am Europe” di Falk Richter. Foto di Jean Louis Fernandez.

Un ulteriore piano di gioco e di sguardi fra scena e mondo, lo dà a suo modo anche il “gran varietà d’Europa” dell’acclamato autore Falk Richter: I am Europe è uno di quegli spettacoli-finestre sul panorama fuori dai confini nazionali in cui godere di una prospettiva sempre corale e polifonica, saturo com’è di così tanti input, tutti volti a coinvolgere lo spettatore. Otto i performer; prima che artisti, cittadini provenienti da diverse nazioni, quartieri, strade, background familiari e sociali, nati in scenari di guerra, discriminazione, ghettizzazione, o nell’agio delle opportunità e dei diritti – anche se contraddittori – e in lotta per una differente definizione del sé o della propria sessualità, della propria attività o dello stesso diritto di appartenenza, che sia a una comunità nazionale o a una comunità in senso lato. Ci raccontano tutto di sé, in otto caleidoscopiche prospettive, nulla è mai fisso né acclarato, specie rispetto alla percezione europea: prendono in giro il loro pubblico, lo provocano, inglobano in una serie di quadri raccontati, recitati, artificiosi o intimamente sentiti lo stesso concetto che, sulle labbra di una delle interpreti, era la summa di uno dei suoi antenati, nientemeno che Fernando Pessoa, che di se stesso diceva: Sii intero, per essere tutto. Ma intero, per Pessoa, corrispondeva a essere una moltitudine – ci viene subito precisato. È questa moltitudine così personale che ci si porta dietro al termine di I am Europe, ancora nel turbine di colori, riferimenti mass mediatici, politici, sociali, condensati in due fitte ore di entertaining intelligente. 

Moltitudine che corrisponde alle stesse sfocature dello sguardo, che moltiplicano i piani d’osservazione: così da non abbandonare il racconto, ma conferendogli forza attraverso una scena che, in tutti i casi proposti, è dialogo e relazione ininterrotti. Così alla mappa e alla rappresentazione si sovrappongono le parole e le storie, mentre l’artificio e la maestria, la reduplicazione e la relazione autentica convivono ribadendo una vicinanza sincera a un tempo. Luoghi vicini quanto ineffabili, e non integralmente circoscrivibili.



Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti