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Assurdi aerei, assurda memoria: lo sguardo su Ustica dei Kepler-452

Maria D'Ugo

È assurdo pensare che gli aerei volino. Per quante spiegazioni si possano offrire a livello fisico, il fatto che un’articolazione talmente complessa di leghe composite e d’alluminio possa spiccare il volo e librarsi nei cieli non ha niente a che vedere con una razionalità tecnica, quando la scelta è quella di porsi deliberatamente dalla parte della meraviglia, della magia dell’inspiegabilità che guarda frontalmente a un meccanismo diventato fin troppo ordinario. Come allo stesso tempo è assurdo pensare che il 27 giugno di trentanove anni esatti fa un normalissimo “autobus del cielo”, un aereo di trasporto passeggeri che avrebbe dovuto percorrere una tratta routinaria, da Bologna a Palermo – quel DC-9 tristemente entrato nella nostra parte di storia nazionale più buia e amara – sia stato abbattuto da un caccia militare  ad oggi ancora non identificato, nel corso di una guerra aerea in tempo di pace. Tanto più che a ricordare le 81 persone che quest’assurdità ha reso vittime c’è il nome di una località minuscola come quella di Ustica.

È invece con l’ipotesi che quell’aeroplano stia ancora continuando a volare sopra al Mar Tirreno (ispirazione che arriva alla compagnia proprio da uno dei parenti delle vittime nel corso di una chiacchierata) che si apre È assurdo pensare che gli aerei volino, spettacolo dei bolognesi Kepler-452, andato in scena al Teatro La Casa del Popolo di Castello d’Argile l’11 maggio. 

Quel DC-9 oggi è conservato, ricostruito per quanto ne è stato possibile, nel Museo per la Memoria di Ustica di Bologna: e per questo spettacolo, nato per commissione, voluto un anno fa proprio dalla presidente dell’associazione familiari delle vittime Daria Bonfietti, il regista e attore Nicola Borghesi e Paola Aiello scelgono di partire proprio da lì. Non nell’intento di ricostruire fatti o di ripercorrere la Storia, dato che questo, ci dicono, è compito arduo che non li vede troppo preparati, nell’immensità di una vicenda i cui primi spiragli di certezze risalgono comunque a soli due anni fa; quanto in quello di provare a cavalcare l’onda della suggestione data dallo scheletro stesso del grosso aereo che il pubblico vede in video alle spalle dei due attori all’inizio dello spettacolo: per non fermarsi solo ai “pezzi” presenti ma a tutto quello che sta nel mezzo, o meglio, che avrebbe dovuto esserci. E che è ancora impalpabilmente lì. In È assurdo pensare che gli aerei volino la ricerca di Borghesi e Aiello è quella del modo più giusto e più reale, più etico di interrogare dei tasselli mancanti, di ricostruirne la traccia. In primis sonora: dal rombo dei motori degli aerei che partono dall’aeroporto Marconi, ai curiosi aneddoti degli “spotter” (che del resto in Emilia hanno la stessa fisionomia abitudinaria e rassicurante degli umarells, più fededegni di un documento storico) o dei giovani aspiranti piloti, delle hostess che ancora si ricordano come quarant’anni fa gli interrogatori fossero frequenti, dei semplici viaggiatori in attesa al terminal. Anche loro, spesso, di Ustica si ricordano poco, sanno poco. Quel che resta è poco, e non è certo solo un problema generazionale.

E allora piano la traccia si sposta, passa dallo spazio aperto a quello privato e chiuso di una conversazione telefonica. La ricerca compiuta dai due attori ci viene restituita in scena attraverso le registrazioni di stralci delle chiacchierate telefoniche intrattenute con alcuni dei parenti delle vittime. Ma, ancora, necessariamente ci si interrompe, per chiedersi: come si interroga una voce? Che magari poi succede che a non guardarsi negli occhi, le parole non corrispondano ai pensieri. E in fondo, sulla falsariga della ricerca di una “pista sonora”, è vero che di chi va via è proprio la voce la prima cosa che scompare. Cosa chiedere, quindi? In che posizione porsi se di perdite grosse non ne abbiamo mai avute? E, in fondo, anche a noi, cosa ci ha lasciato chi se ne è andato? 

Sono lucide, forti e reali nella loro semplicità le constatazioni delle voci che ascoltiamo raccontare (chissà, forse anche con un certo voyeurismo?) in maniera limpida e piana di processi di elaborazione privati, di tentativi di reazione giocati in una quotidianità dimidiata, di piccoli gesti ripensati e da ripensare a distanza di anni. Mentre sul palcoscenico i due giovani attori tentano con la naturalità e spigliatezza leggere di cui è fatta la loro poetica di colmare la distanza fra il racconto e la presenza, provano con piccoli e statici quadri – una tenda da campeggio da montare da soli, due ali di legno da indossare sulla schiena alle spalle di un compagno che, non ricambiando lo sguardo, non sa comunque che si sta osservando lo stesso orizzonte – a restituire un senso di impotenza e di impossibilità di risposta alla perdita cui, umanamente, siamo chiamati a sentirci partecipi. 

Sulla scena dei Kepler-452 il materiale mutuato da un vergognoso “mistero italiano” diventa un’occasione per virare con decisione sulle corde di un forte sentimentalismo, che certo non può non commuovere nell’interrogare e mostrare se stesso prima ancora del proprio referente, nella denuncia di un’insufficienza di comprensione logica: si sceglie dunque l’empatia, la solidarietà, l’umanità fuori dalla Storia. Si sceglie di mostrare la luce oltre l’ombra in un tentativo di ridare voce all’indicibile. E, tuttavia, il rischio è forte: quello che una tale e dichiarata volontà di sgrossare e sorvolare molte delle asperità collegate a una memoria che in ogni caso ci riguarda si tenga forse troppo ai margini di un sentir civile. Il che, non va mai dimenticato, è invece precisamente la missione di un teatro che fa della ricerca di campo il proprio vero momento spettacolare e lo trova prima che sul palco, nei volti e nelle storie. E che tutto questo non è mai un fatto privato, ma collettivo. Che appartiene a una memoria problematica, che può ingannare ma di cui è necessario riappropriarsi, di cui avere il coraggio di farsi carico. Nell’ineffabilità di uno spettacolo che vuole ricostruire dei pieni a partire dai vuoti, nel calore di ciò che si vuole far restare, è dunque un peccato che un’importante memoria da trattenere sia rimasta fuori dallo spettacolo, ovvero che almeno una fra le molte voci di verità da ricostruire su quella notte del 27 giugno del 1980 abbia, dopo più di trent’anni, scavalcato un muro di silenzio, grazie agli sforzi di una comunità che attraverso un agire comune e una comune voce da levare si è riconosciuta tale.



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