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“Granma, Metales de Cuba” dei Rimini Protokoll: Nonna Rivoluzione, Madre Patria e i figli dell’utopia

Maria D'Ugo

“Granma”: uno yacht di quasi venti metri che nel 1956 sbarca sulle spiagge di Cuba. Al suo interno, trasporta quello che due anni dopo diventerà il primo ministro della giovane Repubblica di Cuba, Fidel Castro, assieme ad altri 81 ribelli. È l’inizio della rivoluzione cubana, rivoluzione che arriva dal mare e che, volendo simbolizzare all’eccesso, ma forse neanche troppo, già negli intenti è il parto di uno sguardo antico: granma, nome con cui è stata battezzata la nave, è l’abbreviazione dell’inglese grandmother,“nonna”. In onore di quella nave, in seguito “Granma” è anche diventato il titolo del giornale ufficiale del Comitato centrale del Partito Comunista di Cuba.

E ora, Granma. Metales de Cuba è anche il titolo dell’ultima titanica impresa del collettivo tedesco Rimini Protokoll, spettacolo che è stato salutato con una ovazione di pubblico alla sua prima nazionale il 10 aprile a Bologna. A prescindere che lo si voglia etichettare come teatro-documentario, teatro del reale, esperimento testimonale, con tutte le implicazioni che inevitabilmente ne susseguono e che riguardano non solo meccanismi ideali ma anche compositivi, quello dei Rimini Protokoll e del regista Stefan Kaegi è intanto un’ariosa finestra aperta a favor di pubblico. Panoramica, amplissima, densissima, che dilata l’interno del teatro Arena del Sole estendendosi su sessant’anni di rivoluzione cubana e un po’ più di cento dal primo sguardo gettato su quel piccolo Eden abbracciato dalle due Americhe. Il titanismo non sta certo né nella storiografia, né nell’obiettività, in quanto la storia stessa non è obiettiva. Diventa sempre una questione di relazioni, e di “colpo d’occhio”: qui, quello della generazione dei “nipoti” di quella prima grande, collettiva Granma. Sono in quattro a susseguirsi sul palco: la studiosa universitaria di storia Milagro Alvarez Leliebre, Christian Paneque, che ci racconta di come suo nonno in nome della rivoluzione finì persino sui fronti siriano e marocchino negli anni settanta, Daniel Crusces-Pérez, nipote di uno degli “uomini della rivoluzione”, Faustino Pérez, e in ultimo la musicista Diana Osumy Sainz, che moltiplica la voce di questa generazione giovane e lettrice delle proprie stesse contraddizioni “armando” i suoi compagni di trombone, da imparare insieme e da suonare insieme, scandendo il tempo dello spettacolo e realizzando così una vera e propria “banda microbrigada”, formazione unita da un’azione collettiva che radica il suo piano d’esistenza al di fuori dei confini della pianificazione spettacolare. Tanto più vero se all’interno di un teatro: i ritmi e i tempi della spettacolarità non intaccano né imbrigliano la nuova, piccola comunità generazionale intrecciata dai Rimini Protokoll (risultato di una copiosa serie di interviste e documenti rinvenuti direttamente sul più grande palcoscenico cubano e successivamente scremati); perché questa, per contro, si prende tutto il suo tempo per raccontare in maniera rilassata, logica e leggera il proprio farsi, le tappe della propria costruzione; il che, per dei figli di un’educazione volta in toto alla fede nella patria e nei principi utopici di giustezza e giustizia al servizio della causa rivoluzionaria, ha un valore altro e alto che si installa fluidamente in un presente a cui porre domande. Questa si può dire in qualche modo una costante dei lavori dei Rimini Protokoll, ma soprattutto nel momento di intendere l’entrata a teatro come una possibilità su un di più di conoscenza e di apertura, la viva presenza e la viva voce, che in Granma saturano quasi di troppe informazioni, movimenti, passaggi di luogo scenico, hanno la loro costante in un timbro fatto di sincera semplicità. Di qualcosa che comunque sembra riguardarci.

Il ritmo non lo dà la scena, ma la Storia: «io non so cucire», ci dice Milagro, «ma l’atto di cucire mi ricorda la Storia». Proprio perché questa è precisamente una questione di ritmo, che prenda le sonorità di quello piano e semplice del racconto dei nonni, quello del malcontento che si fa coro per le strade al ricordo del collasso e della crisi («Nikita mariquita, lo que se da no se quita»), quello della rievocazione dei cardini intellettuali nazionali, come José Martí nel suo più che logico assioma sulla potenza della parola, «che non serve a coprire la verità, ma a dirla», anche se poi, a dover proprio parlare di intellettuali: dove sono finiti tutti? Che ne è stato della rivoluzione? E di nuovo, a dirla tutta, «se devo essere fedele alla mia patria come è stato fedele mio nonno con la sua sposa, allora no grazie».

“Granma. Metales de Cuba”. Foto di Ute Langkafe

Grandi schermi portano il dialogo intergenerazionale direttamente sul palco, e se centralmente aprono sui panorami de l’Avana, dando l’impressione di poter davvero passeggiare per le strade, lateralmente riproducono la stessa sensazione che si ha entrando in certe abitazioni dove ancora sono disposte le foto dei parenti: solo che qui in video vediamo i nonni degli stessi quattro “narratori”. La relazione con le riprese dei nonni è il dialogo di una generazione erede di un’utopia che sa leggere e riconoscere, rispettare – finanche nel suo disfarsi -, ma non è quella che ha creato con le sue mani. Eppure, la domanda alla storia non si arresta ai soli sessant’anni di rivoluzione cubana: non è solo alle proprie spalle che ci si può guardare. L’apertura che così a lungo si è negata a un paese la si può realizzare su un palcoscenico con pochi elementi: una pallina da lanciare in vigorosi home run diretti verso la platea; un aggancio continuo all’attualità del luogo concreto in cui ci si trova (ritrovandosi a ridere di se stessi nel sentir evocare il reddito di cittadinanza sulla bocca di un cubano); un teatrino di figurine di cartone con cui riallestire con quelle stesse mani, che nulla hanno ancora creato; alcuni momenti salienti della storia nazionale. E uno sguardo finale su quel che può ancora avvenire, dritto su quel lungomare dell’Avana (dove è stato girato anche Fast and Furious) attraverso una ripresa apparentemente infinita in cui, lateralmente, poter intuire di nuovo il mare, con un augurio e una benedizione.

 

[Immagine di copertina: foto di Ute Langkafe]

GRANMA. METALES DE CUBA

un progetto di Rimini Protokoll

concept e regia Stefan Kaegi
drammaturgia Aljoscha Begrich, Yohayna Hernández González, Ricardo Sarmiento (assistente)
spazio scenico Aljoscha Begrich, Julia Casabona (assistente)
video design Mikko Gaestel in collaborazione con Marta María Borrás (Cuba)
musiche originali Ari Benjamin-Meyers
sound design Tito Toblerone, Aaron Ghantus
costumi Julia Casabona
direzione tecnica Sven Nichterlein
gestione della produzione Maitén Arns
assistente di produzione Federico Schwindt (Berlino), Dianelis Diéguez (Cuba), Miriam E. González Abad (Cuba)

assistente alla regia Noemi Berkowitz

intership Joanna Falkenberg (stage), Ignacia González (direzione), Lenna Stam (costumi)

sottotitoli Meret Kündig

traduzione Franziska Muche, Anna Galt (Panthea)

lezioni di trombone Yoandry Argudin Ferrer, Diana Sainz Mena, Rob Gutowski
ricerca Cuba Residencia Documenta Sur, coordinata da Laboratorio Escénico de Experimentación

interviste Sociali Cuba Taimi Diéguez Mallo, Karina Pino Gallardo, Maité Hernández-Lorenzo, José Ramón Hernández Suárez, Ricardo Sarmiento Ramírez

in scena Milagro Álvarez Leliebre, Daniel Cruces-Pérez, Christian Paneque Moreda, Diana Sainz Mena

Una produzione di Rimini Protokoll e Maxim Gorki Theatre Berlin

in coproduzione con Emilia Romagna Teatro Fondazione, Festival TransAmériques (Montréal), Kaserne Basel, Onassis Cultural Center – Atene, Théatre Vidy-Lausanne, LuganoInscena-Lac, Zürcher Theaterspektakel

Finanziato da German Federal Cultural Foundation, Swiss Arts Council Pro Helvetia e Senate Department for Culture and Europe



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