Arti Performative Dialoghi

“Un pallido puntino azzurro”, monologo nello spazio siderale della coscienza

Andrea Zangari

Un pallido puntino azzurro è stato il penultimo appuntamento della stagione teatrale romana ÀP – Accademia Popolare dell’Antimafia e dei Diritti. Prodotto dal Teatro dei Limoni di Foggia, lo spettacolo è diretto e interpretato da Roberto Galano, direttore artistico dello stesso teatro foggiano. Abbiamo poi fatto qualche domanda al drammaturgo Christian Di Furia, finalista al Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli” 2017 con questo testo per voce sola.

Quando nel 1990 Voyager 1 ruotò di 180° rispetto alla sua traiettoria per scattare un ritratto del nostro pianeta dall’abisso interplanetario, nessuno presagiva la mania dei selfie. Eppure, a ben vedere, l’atto narcisistico di ritrarsi, con tanto di braccio che si tende e si torce tenendo la camera verso l’alto, non è così dissimile. Il cosiddetto “Pale Blue Dot” è il “nonno” di tutti i selfie, e come tale abita in noi, nel nostro bisogno di vedere la nostra immagine a una certa distanza e attraverso l’obiettivo di un apparecchio fotografico. Così reificata, essa entra a far parte di una realtà che lo scatto rende altra e autonoma. Tanto che diventiamo estranei a noi stessi. Come scrisse Susan Sontag, «gli strumenti di cattura non si limitano a rilevare, ma si impadroniscono della realtà»: un po’ come la drammaturgia di questo spettacolo piccolo e intimo, una scrittura a monte godibile anche per lettura sola, che a partire da una percepibile tensione autoanalitica si perde nel fiabesco astronomico. Quelle di Un pallido puntino azzurro sono parole che ambiscono a essere sguardo, ovvero confessione data in primis per gli occhi. Tradotte sulla scena, si avvalgono di una scelta scenografica pulita e pregnante: un trittico di schermi circonda una postazione di comando che è anche la scrivania di una cameretta. Roberto Galano è Franchino, un cosmonauta, o il bambino che sogna di diventarlo, o entrambi. Il suo monologo si biforca nelle proiezioni video di un sé che parla alla Terra, uno sdoppiarsi della solitudine e della voce dell’attore che finisce per ribadirne l’isolamento. La distanza siderale si fa metafora dell’impossibilità del protagonista a collocarsi nel campo gravitazionale delle cose quotidiane, a stabilire un ordine fra l’universo interiore e quello esteriore. Come con una donna amata per anni dopo un solo sguardo ricambiato ma senza alcun seguito. Come con un’indecifrabile e indecifrante madre interrogata sul senso delle cose, che nella memoria di Franchino non fa che rispondere con tautologie enigmatiche e snervanti calembour. Così, a fronte di un linguaggio drammaturgico ed interpretativo adatto anche a un pubblico giovane o giovanissimo, Un piccolo puntino azzurro fa risuonare nell’oscura infinità interiore un’aria malinconica, che ha le note di Space Oddity di David Bowie. Il pallido puntino azzurro è l’io sperduto, che si colora del cielo intorno, svanendoci. Segue un breve scambio con il drammaturgo Christian Di Furia.

“Un pallido puntino azzurro”. Foto di Fabrizio Marangelli

Che cos’è, per te, quel pallido puntino azzurro?

In prima lettura, non mi riesce di distaccarmi dalla visione superficiale, cioè, fisica: il pallido puntino azzurro è la Terra, vista dal punto più estremo del Sistema Solare. E la Terra, che a noi sembra così grande, nello spazio è giusto un puntino, il tratto di una penna appena appoggiata su un foglio. Per scrivere questo testo ho dovuto necessariamente trascorrere molto tempo nello studio, nella documentazione, e tra le pagine più interessanti che ho letto ci sono sicuramente le testimonianze degli astronauti che hanno compiuto missioni. Tutti evidenziano quanto sia piccola la Terra osservata dallo spazio: anche alla breve (“astronomicamente”) distanza, ad esempio, che la separa dalla Stazione Spaziale Internazionale, non è che una sfera dalle ridotte dimensioni, e da quella prospettiva, dicono pressappoco tutti, diventa massimamente chiara l’irrilevanza dei confini, delle divisioni; piuttosto, ci si sente tutti parte di una specie, quella umana. Lassù, problemi che da terra sembrano insormontabili, si guardano alla stregua di bagattelle, e il contrario, aspetti irrilevanti a terra, nella visione completa dell’universo, assumono invece una qualità fondamentale.

Quanto misura lo spazio fra la parola scritta e quella portata in scena? Come hai lavorato con Roberto Galano per preparare lo spettacolo?

Lo spazio tra la parola scritta e quella in scena è, secondo me, la misura del suono. Ha questo di bello il teatro: vive sulle pagine della drammaturgia e vive sulla scena con gli attori. E la parola scritta diventa parola detta. Suono, appunto. Uno spettacolo è una composizione. Sul palco deve “suonare”. Il lavoro con Roberto ha attraversato tutte le fasi necessarie, dalla lettura alla messinscena. Ci siamo scambiati osservazioni, idee, abbiamo parlato del personaggio, della sua storia; successivamente lui ha condiviso con me la sua idea sul “come” raccontare, registicamente, quella storia. Il lavoro che ha fatto poi sul personaggio a livello interpretativo appartiene, giustamente, all’intimità dell’attore: ne abbiamo parlato, ne parliamo. Ma ciò che vive lui sul palco per dare vita al personaggio è cosa sua, assolutamente privata.

Foggia è oggi fra le città più problematiche del Sud Italia. Cosa pensi che il teatro possa fare in quel contesto? Come ti senti da giovane drammaturgo di fronte a una realtà sociale complessa, degradata, spesso violenta?

Il teatro, come la letteratura, è inutile e proprio per questo è fondamentale. A Foggia come a Trieste. Certo, Foggia è una città con molto problemi, ma per me rimane la città migliore del mondo. È un fatto viscerale. Se mi chiedi quindi cosa il teatro possa fare per Foggia, e in contesti simili io non lo so; ma già esistere, di per sé, penso conti molto. Produrre, come fa il Teatro dei Limoni, spettacoli di nuova drammaturgia; organizzare cartelloni con sette-otto spettacoli a stagione; condurre, ogni anno, laboratori per adulti e per bambini, nelle scuole, in città, in provincia. Dal contesto che tu hai descritto un drammaturgo trae spunti, alimento. Tutto il teatro nasce dal conflitto e dalla contraddizione. Per il resto, parafrasando Calvino, l’attualità mi interessa perché esista come un rumore di fondo, di cui non si può fare a meno.

 

[Immagine di copertina: foto di Roberto Moretto]



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