Arti Performative Dialoghi

Bernabéu / Covello “Intransito” a Genova: universale è il teatro che ci assomiglia

Andrea Zangari

Zoé Bernabéu e Lorenzo Covello, già vincitori l’estate scorsa del Premio delle Giurie al Festival Direction Under 30 di Gualtieri, saranno domani 14 dicembre in scena presso Teatro AkropolisGenova nell’ambito del progetto Intransito promosso dal Comune di Genova in collaborazione con Teatro Akropolis, La Chascona e Officine Papage, e realizzato grazie anche alla sponsorizzazione di Conad, un progetto che intende valorizzare il lavoro di giovani compagnie e di artisti emergenti della scena nazionale che portano avanti ricerca e innovazione nell’ambito delle arti performative. I sei finalisti presentano il proprio lavoro di fronte al pubblico, critici, personalità del mondo del teatro a livello nazionale e alla Giuria di operatori che al termine della rassegna assegnerà al vincitore un premio del valore di 1.500 euro, quale sostegno all’opera realizzata: tra questi finalisti, appunto, ci sono loro, Zoé e Lorenzo. Il loro spettacolo Un po’ di più, di cui sono interpreti, registi, coreografi, gli era anche valso, prima ancora del successo a Gualtieri, i premi Spirito Fringe, Speciale Off e, a pari merito con Pezzi di Rueda Teatro, il Premio della Stampa al Roma Fringe Festival.
Bernabéu ha studiato danza contemporanea al Conservatorio Nazionale di Parigi. Covello ha studiato alla Piccola Scuola di Circo di Milano e al FLIC di Torino. Entrambi hanno poi mescolato i rispettivi percorsi lungo trame europee, partendo per la tangente delle ibridazioni linguistiche con le altre discipline della scena. E lungo questa traiettoria eccentrica si sono incontrati, entrambi figli di una “generazione Erasmus” del teatro: figli di una fluttuazione delle arti e delle esistenze, di una condizione nuova che può produrre il disagio dell’incertezza esistenziale e della precarietà lavorativa, ma anche bellezza. La bellezza di un lavoro che emerge proprio nel lasciarsi attraversare da quei pericoli, per parlare di ciò che invece tiene insieme due persone, due performer, sulla stessa scena.

Dopo i premi Spirito Fringe, Speciale Off e, a pari merito con Pezzi di Rueda Teatro (altro spettacolo in scena domani a Intransito che vale la pena vedere), il Premio della Stampa al Roma Fringe Festival 2019, avete vinto il Premio delle Giurie a Gualtieri. Riconoscimenti che testimoniano certamente una maturità scenica. Vi aspettavate un tale successo per il vostro primo lavoro insieme? 

Ovviamente no, la grande sorpresa l’abbiamo avuta soprattutto al Roma Fringe Festival, perché uscivamo da un periodo di creazione molto intenso, e il lavoro non era ancora compiuto. Quindi nonostante fossimo andati in scena con basse aspettative, voci di corridoio ci hanno detto poi che saremmo andati in finale: è stata per noi una sorpresa enorme, quella di essere stati scelti fra trenta spettacoli, anche perché si trattava di un work in progress della durata di 35 minuti, che avevamo mostrato a dieci persone fidate e basta. Siamo molto soddisfatti di quello che avevamo creato, soprattutto alla luce del fatto che non avevamo avuto troppi riscontri prima di Roma e nonostante questo siamo arrivati in finale con un lavoro non finito. E adesso, il premio al festival Direction Under30 di Gualtieri ci è sembrato un bellissimo regalo, anche se non è stato tanto sorprendente come a Roma, perché già avevamo vinto il Fringe, quanto commovente.

Il tema dell’accessibilità del linguaggio performativo sembra essere centrale nel vostro lavoro. Con quali strumenti linguistici cercate di indirizzare la vostra ricerca verso quest’emergenza?

Il tema dell’accessibilità entra nel nostro lavoro per come lo conduciamo, ma non in forma esplicita, cioè non nel senso di un teatro che debba attirare quanto più pubblico possibile. È piuttosto nel nostro modo di mettere in scena le cose: un modo nato con Un po’ di più, e che è segnato dalla semplicità. L’asciuttezza della messa in scena serve a trattare un tema universale, che evidentemente, per come lo abbiamo trattato, ha toccato il pubblico. Questo è accaduto perché forse siamo partiti da qualcosa che ha toccato, in primis, noi stessi. Nella semplicità dei mezzi che utilizziamo c’è però la diversità dei nostri linguaggi: abbiamo creato qualcosa che ci assomigliasse, ma come artisti e anche come persone ci siamo preoccupati del fatto che al pubblico arrivasse quell’universalità. Non è stata, però, una priorità quella di realizzare uno spettacolo in cui il pubblico “capisse” tutto. La nostra emergenza primaria era di smuoverci e di smuovere qualcosa nel cuore dello spettatore, e secondo noi quella semplicità dei mezzi che usiamo (la danza, la parola, la concretezza dei pochi oggetti scenici con cui interagiamo) ci riconduce all’idea di due corpi in scena che hanno la possibilità di parlare e di muoversi. Una semplicità dunque non vuota, ma piena, e in quanto tale, non sempre semplice da ricreare. Si tratta di un’”essenzialità”, ecco, più che di una semplicità.

Le vostre biografie sono poliglotte, la vostra formazione eterogenea. Come vivete queste ibridazioni, in un tempo in cui la fluidità, soprattutto tra i giovani ed in particolare nei lavoratori del mondo dell’arte, prende la piega lavorativa ed esistenziale del precariato? In che misura il vostro lavoro artistico ne risente?

Sicuramente le nostre formazioni sono molto eterogenee e quindi anche il nostro linguaggio risulta composto da altri, che sono a loro volta ibridi. Questo è qualcosa che riguarda tutta la scena contemporanea, artistica e non: il sapere di tutto un po’. D’altro canto, l’accessibilità delle informazioni conduce a un sapere diffuso, e questo in ambito artistico può portare a qualcosa di interessante. Dal punto di vista lavorativo, invece, porta, purtroppo, alla scomparsa di figure professionali specializzate. Il nostro lavoro ne risente nella misura in cui spesso anche noi ci troviamo a dover fare cose che non vorremmo fare e che sarebbe meglio qualcun altro facesse. Per esempio, tutto il lavoro di comunicazione: passiamo più della metà del tempo a disposizione a scrivere mail, fare chiamate, organizzare, risolvere problemi logistici. Questo rischia di non farci restare concentrati sul processo creativo, perché siamo noi e basta, non c’è una squadra dietro e allora, a volte, anche quando pensiamo di voler apportare delle modifiche al nostro spettacolo per una data prossima, finiamo per non farle, perché davvero nel frattempo siamo sommersi da una montagna di questioni amministrative. Questo premio del Teatro Sociale di Gualtieri è stato un primo aiuto per, magari, riuscire a pagare qualcuno per fare il suo lavoro mentre noi facciamo il nostro. È il primo aiuto importante che ci potrebbe forse far fare dei passi in avanti, delegando alcuni compiti. Fino ad ora ci siamo affidati ad alcune persone per la realizzazione del materiale fotografico e video, si è trattato di investimenti grossi, e grandi sacrifici. Noi comunque ci reputiamo molto fortunati, perché siamo in questa produzione, Muxarte / PinDoc, che si occupa di contratti, buste paga, agibilità e comunicazione. Qualcosa, insomma, già la deleghiamo! La distribuzione dello spettacolo è qualcosa, però, che grava ancora su di noi.

Veniamo al vostro spettacolo: Un po’ di più. Che cosa ha spinto a portare in scena una rappresentazione delle dinamiche relazionali? In che modo avete gestito la tensione fra la singolarità del vostro rapporto in quanto individui e l’universalità del linguaggio scenico?

Il tema è qualcosa con cui ci siamo misurati e ci misuriamo ancora quotidianamente, personalmente, continuamente trasformandoci. Era qualcosa su cui avevamo da dire, che ci toccava. Abbiamo cercato di essere quanto più universali e di non contaminare troppo questa universalità con le nostre individualità, anche se chiaramente abbiamo attinto dalle dinamiche del nostro rapporto. Abbiamo però avuto pudore, abbiamo voluto anche proteggere la nostra coppia. Non ci siamo, però, dovuti trattenere per non dire troppo di noi stessi: ci è venuto naturale non parlare troppo di Zoé e di Lorenzo come sono nella vita. Ci sono delle domande in una traccia audio che non erano nella musica, ma le dicevamo noi: sono l’esempio di domande che ci sono in ogni rapporto a due. Molti pensano che lo spettacolo sia autobiografico, ma in realtà no. È il fatto che noi stiamo insieme che fa proiettare alle persone sulla scena l’idea che si tratti di un rapporto di coppia; in realtà potrebbe trattarsi di qualsiasi rapporto d’amore, anche quello di due fratelli, per esempio.

“Un po’ di più” di Bernabéu/Covello. Foto di Melqart Pro

Zoé viene dalla danza contemporanea, Lorenzo dalla giocoleria e dal teatro in senso più stretto. Quali ostacoli e quali potenzialità avete riscontrato nell’amalgamare sulla scena abilità plasmate da percorsi di formazione diversi?

Secondo noi la potenza dello spettacolo risiede proprio in quel suo mostrare due anime che mescolano i loro saperi. Siamo infatti partiti da una domanda molto precisa: come possiamo stare in scena insieme? Lo spettacolo è nato così, dal desiderio di fare qualcosa insieme, e l’ibridazione è uno dei risultati di questa volontà, che si è articolata con un lavoro di dosaggio costante delle nostre qualità, che ci ha portato a travalicare i confini delle nostre singole specificità. Non sapevamo dove stavamo andando. Sapevamo che volevamo parlare di relazione, di amore, ma nulla di più. La nostra semplicità ci faceva anche correre il rischio della banalità, per questo abbiamo trovato degli elementi formali che potessero fare da appoggio al nostro linguaggio senza troppo dargli una forma di danza o di teatro, come l’arredo del tavolo, che era nella nostra ricerca una sorta di limite con cui giocare e che ci ha offerto la meravigliosa possibilità di incontrarci.

 

[Immagine di copertina: “Un po’ di più”. Foto di Melqart Pro]



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